Cenere è quello che resta dopo trent’anni a rincorrere la verità sulle stragi. “Cenere di verità, di credulità, di fiducia”. Ma è anche l’opera di Gery Palazzotto, prodotta dal Teatro Massimo di Palermo, che va in scena venerdì e sabato in Sala Grande. “E’ l’ultimo capitolo di una trilogia – spiega l’autore – che avevo cominciato a scrivere con Salvo Palazzolo nel 2017, e che contiene altri due capitoli: Le parole rubate e I traditori. E’ il format del teatro-inchiesta applicato al giornalismo investigativo”. Tutta la stagione 2022 del Massimo è dedicata al trentennale delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. E del sacrificio dei giudici Falcone e Borsellino, di Francesca Morvillo e degli agenti della scorta. “E’ una scelta con cui il primo teatro d’opera italiano, e il terzo d’Europa, si mette in gioco politicamente”.

“Perché un teatro è utile a una cosa del genere? Perché è il luogo della fantasia – risponde Palazzotto -, e la fantasia è il seme dell’arte, che a sua volta è lo strumento per essere veramente liberi in quell’artificio complicato che è la verità del dubbio. Solo attraverso la verità del dubbio si possono trovare delle risposte che vanno oltre i cliché, le realtà preconfezionate, le sentenze che hanno spacciato per verità”. La memoria del depistaggio è ancora fresca. Nei giorni scorsi la procura di Caltanissetta ha chiesto la condanna di tre poliziotti per aver indottrinato il falso pentito Vincenzo Scarantino, che per sedici anni ha “portato le indagini fuori strada”. Per Palazzotto, però, quelle fornite dai tribunali equivalgono a “molliche di verità. Davvero ci stiamo accontentando di questo?”.

Poi l’analisi entra nei dettagli: “Tutti i magistrati coinvolti in quella operazione sono stati promossi. Non ne è stato punito neanche uno perché ufficialmente la colpa è di questi tre poveri cristi giudicati a Caltanissetta. Poi ci sono gli altri due – La Barbera (il capo della squadra mobile di allora) e Tinebra (l’ex capo della procura) – entrambi morti. Ma è mai possibile che il più grande depistaggio della storia repubblicana, come lo descrivono i giudici di Caltanissetta, sia opera di cinque persone che si incontrano a cena e inventano un finto pentito? Questa è una verità che fa ridere i polli”. “Eppure in Italia non c’è mai stato un corteo – aggiunge l’autore teatrale e giornalista -. Solo i parenti delle vittime e quattro pazzi come noi s’indignano”.

Da qui il ricorso a Cenere. Un contributo alla storia e alla verità. Un modo per esaltare la ricerca attraverso l’utilizzo dei toni dello spettacolo. La scena è strutturata con un narratore che si sdoppia in due personaggi. Uno è il protagonista delle precedenti opere, quello che cerca di tenere la barra dritta pur essendo lacerato da mille dubbi nel vivere quotidianamente la difficoltà della ragione. L’altro è la vera novità. È un infiltrato nelle schiere nemiche, è il siciliano abulico che pensa – per dire – che “la mafia dà lavoro”, che le teorie del complotto sono tutte stupidaggini ma che alla fine mette in crisi anche le più ferree convinzioni. Nell’atto conclusivo della narrazione dei misteri delle stragi che nel 1992 cambiarono la storia di questo Paese, il bene e il male, il bianco e il nero si dividono la scena, ognuno con la sua rivelazione, ognuno col suo carico di dolore, ognuno con una tesi inconfessabile.

“Cenere è più opera che inchiesta”, spiega Palazzotto. Con le musiche di Marco Betta (presente nel triplice ruolo di sovrintendente, compositore ma anche esecutore sul palco), Fabio Lannino e Diego Spitaleri, la narrazione di Gigi Borruso, le coreografie di Alessandro Cascioli e Yuriko Nishihara, gli artworks di Francesco De Grandi, è un’opera globale che usa nuovi linguaggi per affrontare vecchie ferite collettive. “Il linguaggio della scena – continua l’autore – è un’altra cosa rispetto al linguaggio giornalistico. E’ la narrazione di una storia che parte dal teatro, ma può uscire, andarsi a bagnare nel sudore di Palermo e rientrare a teatro col suo carico di credibilità. La mafia può essere raccontata senza pronunciare la parola sangue, senza mai far vedere l’immagine di un morto o di una pistola. Si può raccontare un fenomeno duro e tremendo attraverso il racconto di una partita di calcio, di un gioco fra bambini o le memorie di un vecchio. Questo è il linguaggio della scena”.

Un’opera che si rivolge ai giovani. Il cui approccio nei confronti della storia – anche quella delle stragi – è più profondo che mai. “Da un mese parlo nelle scuole e racconto ai ragazzi questa storia. Li ho trovati molto preparati. Come in tutti i miei spettacoli, la prima recita è dedicata a loro. Decine di alunni riempiranno il teatro (sold-out). Ci arrivano dopo aver conosciuto la storia, le criticità, dopo aver fatto le loro domande, dopo aver parlato con gli autori delle musiche e col sovrintendente”.

Il ricordo è vivo, ma l’attualità morde. Così Palazzotto, fra una prova e l’altra, analizza il tema del momento. Sentitissimo a Palermo. Cioè il ritorno in campo delle vecchie glorie – Cuffaro e Dell’Utri – che persino il giudice Alfredo Morvillo, il fratello di Francesca, ha messo nel mirino perché “c’è una Palermo che gli va dietro, se li contende e li sostiene”. Il peccato originale? Essersi macchiati di una sentenza che li ha condannati l’uno per favoreggiamento (Cuffaro), l’altro per concorso esterno (Dell’Utri). “La ritengo una polemica fuori luogo – dice Palazzotto -. Se un candidato lo sceglie Dell’Utri, il problema non è di Dell’Utri ma della classe politica”. E ancora: “Non ho nulla contro Cuffaro: credo che, scontata la sua pena, ha diritto di dire e di fare quello che vuole. Negli ambiti che gli sono consentiti dalla legge. Se la politica di oggi, quella che ha messo Cuffaro alla gogna, ha ancora bisogno di lui, è un problema della politica non di Cuffaro”.

Poi riparte il parallelismo col teatro: “Non dobbiamo mai confondere l’attore con la scena. Se un attore è bravo, ma la scena è disegnata da cani e il risultato è scadente, la colpa non è dell’attore ma della scena. Il difetto più grande di una certa antimafia è quello di non essere riuscita a trovare sbocchi. E’ stata movimentista, sloganista, importante per la Primavera di Palermo. Ma non ha lasciato eredi”.