Strappare lungo i bordi è una serie sul tempo. Sul tempo interiore, anzi mentale, fatto di associazioni velocissime, di iperboli, di ragionamenti paradossali e ammissioni commoventi dei propri limiti. Tutto è talmente veloce che una riflessione sul G8 di Genova sta insieme all’educazione maschilista trasformata in graffito (Amare le femmine è da froci). Che si può sudare come un kebab e ragionare sulle dinamiche dell’amore, balletto equilibristico tra dichiarazione e negazione dell’interesse. Che si può pensare al senso di responsabilità, ma poi decidere che è meglio essere un filo d’erba trasportato dal vento, e non avere mai il coraggio di prendere la pizza ‘Sto cazzo. E tutto così veloce, così pieno di ritmo da mimare il pensiero nevrotico, iper analitico e intelligente di un giovane che rimane giovane oltre i trent’anni. Un giovane che vive solo rapporti dilatati che non vanno da nessuna parte, un giovane per cui non arriva mai l’attimo giusto, l’attimo giusto che te pija bene per vedere la serie più bella di Netflix, o trovare l’amore. C’è tutto il paradosso della nostra contemporaneità: il tempo interiore velocissimo, nevrotico, iper stimolato; e, dall’altra parte, il tempo della vita reale lentissimo, così lento che sono passati dieci anni e manco te ne sei accorto, perché sei sempre uguale. La tua vita è sempre uguale.

E certo, lo fa in romanesco. Se Zerocalcare fosse bergamasco, lo farebbe in bergamasco; se fosse di Palermo in palermitano. Dario Fo invitava gli aspiranti attori sul palco, gli diceva di improvvisare un’emozione. Chiedeva loro di rifare la stessa scena nel dialetto, o nella parlata popolare di appartenenza. E il risultato era infinitamente migliore, perché ci sono lingue che appartengono alla nostra sfera emotiva, quella più vera, più incisiva. E’ quello che fa questa serie: dire cose verissime che rimangono lì a farti riflettere, pure se non hai capito ogni singola parola. Che tanto ‘sti cazzi, annamoce a pijà un gelato.

(tratto da Facebook)