La prima provincia siciliana nella classifica dei contagi, la cinquantaduesima a livello nazionale, è Ragusa. Con un dato monstre: 1033,26 positivi ogni centomila abitanti. Nettamente peggio di Catania (717) e Palermo (636). Un record, se consideriamo che la Sicilia è tra le regioni messe meglio per tasso di contagiosità: nell’ultimo monitoraggio dell’Istituto Superiore di Sanità, l’indice Rt è sceso a 1,13, a un passo dalla soglia critica di 1. E’ il dato che, nei prossimi giorni, potrebbe determinare la scelta del governo nazionale di allargare leggermente le maglie per il pranzo di Natale.  Ma le feste a Ragusa le vedranno col binocolo, ed è forte la pressione politica per recintare l’area iblea e dipingerla di rosso. Lo chiede con insistenza Nello Dipasquale, deputato regionale del Pd, che illustra altri dati preoccupanti: al 18 maggio, termine ultimo del lockdown, in provincia si erano manifestati appena 94 casi, con 9 morti. Cinque mesi dopo, complice un’estate fin troppo briosa, si contano 4.318 positivi, con un aumento vertiginoso del 4.439%. Mentre i decessi sono 75 (+733%).

Persino alcuni sindaci vicini a Nello Musumeci, nel corso dell’ultimo summit con l’assessore Razza, hanno invocato nuove restrizioni. E il presidente della Regione sembra acconsentire: “Ho dato mandato all’Asp di Ragusa di valutare un ulteriore protocollo – ha spiegato Musumeci – che tenga conto delle valutazioni epidemiologiche, dell’impatto sulle strutture ospedaliere e della diffusione del contagio”. Non escludiamo – è la sintesi del ragionamento – di istituire altre “zone rosse”. In giornata, a Vittoria, si sono aggiunte le vicine Comiso e Acate. Nel centro ipparino, alla terza settimana off-limits,  i risultati non si vedono: le persone attualmente positive sono 897. La situazione, però, è pesante soprattutto negli ospedali. Dove scarseggiano persino le bombole dell’ossigeno: “Spero e credo che la Regione ci consenta di utilizzare quelle con ossigeno liquido. Uno dei problemi che si ha nell’allestimento dei reparti Covid, è la pressione dell’ossigeno negli impianti”, spiega il direttore generale dell’Asp di Ragusa, l’architetto Angelo Aliquò.

Anche lei ha chiesto a Razza e Musumeci l’istituzione della “zona rossa” provinciale?

“Non rientra nelle mie competenze. Il mio compito è fornire tutte le informazioni affinché la politica possa decidere. I posti letto, però, sono quasi tutti occupati. Questo è un dato di fatto”.

E quindi?

“Ne attrezzeremo degli altri. Ma con le stesse forze e le stesse risorse. E i medesimi professionisti. Stiamo convertendo le strutture per il Covid, ma non perdiamo di vista l’obiettivo di mantenere alcune prestazioni, a cominciare da quelle di emergenza e urgenza”.

Perché gli ospedali ragusani sono in sofferenza?

“La difficoltà principale nella gestione del virus sta nel fatto che bisogna sdoppiare tutto. Ci sono la partoriente Covid, l’infartuato Covid, il paziente di medicina generale che magari è positivo, ma non ha la polmonite bensì un blocco intestinale… Non possiamo trasferirli in un reparto normale. Tutti degli ospedali della provincia stanno lavorando con pazienti Covid. Uno più degli altri, ma solo perché consente un numero maggiore di ricoveri e garantisce anche le altre cure”.

Sta parlando del “Giovanni Paolo II”, un ospedale inaugurato nel 2018 dopo una gestazione quasi ventennale. E diventato in poche settimane il Covid Hospital di riferimento dell’intera provincia.

“Quando i contagi sono aumentati, ma le risorse sono rimaste invariate, abbiamo temuto che la situazione potesse sfuggirci di mano. Le opzioni erano un paio: chiudere il Giovanni Paolo II e trasportare tutti i rianimatori al Maria Paternò Arezzo di Ragusa Ibla, che era il Covid Hospital di riferimento; oppure, concentrare tutto sul Giovanni Paolo II. Una scelta che, poi, s’è rivelata vincente. Gli anestesisti devono occuparsi anche del punto nascita, dell’emergenza chirurgica e traumatologica. Ci sono cose che bisogna necessariamente mantenere e questo era l’unico modo per farlo”.

Qual è il livello di saturazione del reparto di Terapia intensiva. A livello regionale abbiamo raggiunto la quota critica del 30%, ma tantissime regioni sono messe peggio.

“Gli otto posti di Rianimazione sono pieni. In più, abbiamo trasformato un’ala del reparto di Medicina generale in Terapia sub-intensiva: 17 posti che all’occorrenza – grazie gli strumenti che ci ha fornito la Regione – possono ospitare pazienti in Terapia intensiva. In larga parte è già avvenuto”.

Cosa accade a chi deve essere intubato ma non ha il Covid?

“Per gli altri tipi di emergenza possiamo utilizzare alcuni posti ricavati all’interno della Terapia intensiva cardiologica, che deve rimanere libera dal Covid”.

Avete risolto i problemi di personale?

“Alcuni professionisti sono rientrati dalla pensione, e un paio di loro hanno chiesto di non essere remunerati. Mancano gli anestesisti, ma non è colpa della Regione. Paghiamo alcune scelte del passato, come quella di tagliare le scuole di specializzazione. Non si può pensare che un operatore della sanità debba lavorare per sempre, e non vada mai sostituito. Non si può chiedere a un autista soccorritore di 60 anni, specie se donna, di sollevare la barella di un paziente obeso. Il personale è una di quelle cose che va sostituito, svecchiato, adeguato alle esigenze. Non si può pretendere di fare tutto, ma sempre con le stesse persone”.

La sanità non ha rami secchi?

“Ci sono sempre le cose inutili, da tagliare. Ma bisogna capire se la sanità è un costo o un investimento. Io non ho dubbi in proposito. Se dobbiamo credere nella sanità pubblica, quella per cui i cittadini pagano le tasse, bisogna fare degli investimenti importanti. Questi coincidono col miglioramento della società, e producono guadagni. Le aziende che portano un disavanzo non sono quelle che spendono per dare un buon servizio, ma quelle che non danno servizi. E che portano la gente a curarsi altrove”.

Perché a Ragusa l’emergenza ha assunto contorni così gravi?

“Io non sono un esperto di turismo, ma chi ne capisce ha detto che quest’estate il 30% dei flussi si sono concentrati nella nostra provincia. E se è stato redditizio da un lato, dall’altro ci ha fatto molto male. Tanti, inoltre, non sono riusciti a rinunciare al weekend a Malta. C’è stata una fase in cui l’età media dei contagiati era di 21 anni. Chi è tornato col Covid, l’ha trasmesso ai nonni”.

Lei sta conducendo questa battaglia al fronte. Cosa pensa di chi discetta sul modo migliore per salvare il pranzo di Natale? Può essere una prerogativa?

“Io non riesco a guardare oltre la prossima settimana. Assieme a un’equipe straordinaria di collaboratori, mi occupo di programmazione sanitaria, di mettere dentro altro personale, di serrare le fila, di superare le difficoltà che sono tantissime. I pazienti ci incolpano se le scuole rimangono aperte, o, semplicemente, se il medico di famiglia non risponde al telefono. Quando la notte chiudi gli occhi, il cervello resta focalizzato sul Covid e continua a macinare. In questo momento dobbiamo stringere i denti e non badare a troppi discorsi. Non penso al Natale, lo lascio fare ad altri. Ma temo non sarà una festa serena”.

Ha dei consigli da dare?

“I soliti. Concentrarci sul rispetto delle regole e applicare il buonsenso. Inoltre, usare la mascherina: quest’anno ci aiuterà a proteggerci anche dalle influenze stagionali”.