Che la Sicilia fosse un feudo del centrodestra, tranne in rari momenti della storia, è un fatto assodato. Che per la presidenza della Regione siano in corsa quattro figure provenienti dall’area di centrodestra, invece, dovrebbe far riflettere. Specie il Partito Democratico, che in questa competizione elettorale butta nella mischia Caterina Chinnici: europarlamentare in carica, senza tessere di partito (essendo un magistrato in aspettativa non le è concesso prenderne), ma pur sempre un esponente del governo di Raffaele Lombardo dal 2009 al 2012: si dimise dopo che il governatore di Grammichele venne indagato per corruzione e voto di scambio (inchiesta da cui uscirà assolto, dieci anni dopo), anche se il passo di lato di Chinnici fu giustificato da un nuovo incarico al Dipartimento della Giustizia minorile.

La Chinnici non ha mai rinnegato l’antico rapporto, dal quale si congedò ringraziando Lombardo “che mi ha chiamato al governo stravolgendomi la vita e per avere rispettato il modo in cui ho svolto il ruolo di assessore tecnico con l’imparzialità che il presidente mi ha riconosciuto”. Parole che hanno fatto il paio con quelle pronunciate dalla Chinnici durante la campagna per le primarie, quando arrivò ad aprire il campo anche agli autonomisti, finendo per irritare il resto della compagnia (in primis Claudio Fava). Le strade si sono separate e Lombardo, irrimediabilmente, finirà per sostenere un altro uomo di centrodestra, Renato Schifani, che si prepara a raccogliere il testimone di Nello Musumeci.

Al leader autonomista sono legate quasi tutte le pedine di questa partita incerta. Soprattutto una: Gaetano Armao. Anch’egli con una storia di centrodestra, anche se il moto ondivago delle ultime settimane lo ha portato a cambiare bandiera: da quella di Forza Italia, che gli ha garantito cinque anni di popolarità da vicepresidente della Regione e assessore all’Economia; a quella di Azione, il partito di Calenda che s’è appena federato con Italia Viva di Matteo Renzi. Lo chiamano terzo polo, ma somiglia tanto a un surrogato di centrodestra, almeno nell’Isola, considerati i buoni rapporti di Armao – il quale imperterrito resta al governo pur essendone uno sfidante – con molti del “cerchio magico” di Musumeci, che, con qualche sfumatura doverosa, corrisponde in parte alla sua squadra assessoriale. Quella dei Razza, dei Messina, dei Falcone che adesso, così dicono, sosterranno Schifani. Armao, prima di essere l’uomo dei bilanci farlocchi e delle Finanziarie di cartone, fu assessore al Bilancio di Raffaele Lombardo nello stesso governo in cui operava la Chinnici, dal 2010 al 2012.

A guardarla così sembrerebbe una rimpatriata fra vecchi amici. Anche fra Schifani e Armao, parole di quest’ultimo a Live Sicilia, esiste un rapporto “di correttezza e reciproco rispetto”, come con la Chinnici. Meno con Cateno De Luca, che dopo aver abbandonato lo scranno all’Ars (eletto con l’Udc) ed essersi candidato alla presidenza, ha troncato i buoni rapporti di vicinato per scagliarsi contro la banda bassotti della politica. Compreso “Armao meravigliao”, contro il quale ha inveito a più riprese per la gestione dei conti: “Tentare di far credere che il rating della Sicilia sia stabile grazie alle politiche messe in atto dal governo è l’ennesimo tentativo di mascherare la verità”, è stato l’ultimo attacco di Scateno rivolto all’assessore in carica. Gli scontri fra i due hanno toccato livelli imbarazzanti – una volta l’ex sindaco di Messina svelò alcuni vocali in cui Armao lo invitò a passare alla frutta (“Va suchiti n’prunu”) – anche se fu De Luca, nel 2017, a scendere a compromessi con Musumeci per evitare che fosse il leader (farlocco) degli indignados a essere candidato alla presidenza: “Lombardo stravedeva per lui – raccontò De Luca in un’intervista -. Io no, perché già avevo avuto modo di conoscerlo. Armao è uno che non si è mai candidato né misurato nelle urne”. Quel momento segnò la fine dell’amicizia, o vicinanza politica, fra De Luca e Lombardo.

Ma anche la storia siciliana prese un’altra piega. Con Musumeci alla Regione per cinque anni, e il centrodestra che gli si sgretolava intorno. Fino alla situazione attuale. Con tre candidati su quattro che, potenzialmente, vengono fuori da quella esperienza di governo. Compreso Schifani, che per buona parte della legislatura, non ha mai alzato il ditino per segnalare gli scempi di una gestione grottesca sotto molti profili. Che è rimasto lontano dalle questioni siciliane, motivo per cui la sua discesa in campo ha incontrato qualche riserva anche all’interno del suo partito, Forza Italia. A chi gli ha chiesto un giudizio su cinque anni di governo Musumeci, l’ex presidente del Senato (passato dal Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano prima del ritorno all’ovile) ha risposto così: “Non ha operato male. Ha gestito con grande responsabilità la pandemia, non ha infarcito di rimpasti la legislatura, il Pil in Sicilia è cresciuto. Lui (Musumeci, ndr) è una persona corretta, forse spigolosa nel carattere. Ma siamo esseri umani, nessuno è perfetto”.

Il centrodestra arriva a questa competizione elettorale platealmente diviso. La prova sono i quattro candidati provenienti – chi più, chi meno – da quell’area. Su cui, forse, gli elettori – tranne quelli che sceglieranno De Luca con un voto di pancia – faticheranno a ritrovarsi. Ma ne esce peggio il Pd, che non è riuscito a garantire, nonostante le primarie, un profilo fuori dagli schemi. In grado di dire cose di sinistra. Una che incitasse il popolo dei Cinque Stelle o gli ambientalisti o gli ultimi comunisti rimasti, a recarsi alle urne. Che muovesse una sola critica nei confronti del governo Musumeci o che facesse notare la lotta interna al centrodestra, furente e a tratti sprezzante, per accaparrarsi la poltrona più ambita. Niente. La Chinnici è rimasta fuori da tutto questo perché è una persona che non polemizza, che non dà pagelle, che non giudica. Ora che bisognerà scendere nella fossa dei leoni e sporcarsi le mani, chi manderà al suo posto?

Ecco la parolina con la quale Chinnici criticherà Musumeci
(di Vitangelo Blando di Montededero)

No, nessuno pretende che Caterina Chinnici, Nostra Signora dell’Inconcludenza, si vesta da Robespierre e porti alla ghigliottina i responsabili delle malefatte di questi cinque anni alla Regione. Nessuno pretende che la vincitrice delle primarie del centrosinistra vada nelle piazze a denunciare i traccheggi del Bullo con Antonello Montante o con gli avventurieri come Ezio Bigotti o con gli intermediari d’affari come Giovanni Randazzo. Nessuno pretende che lei, immagine forte del Pd e di tutta la sinistra siciliana, convochi un’assemblea popolare, magari sulla piazza del Parlamento, per chiedere al neofascista Nello Musumeci conto e ragione sullo scandalo dell’Ente Minerario, orchestrato dagli amici degli amici per dirottare a Londra degli ultimi venti milioni raschiati nel fondo del mastodontico carrozzone siciliano. Nessuno pretende che lei, con la sua storia personale di magistrato integerrimo, imbracci un forcone per mettere con le spalle al muro il Balilla, meglio conosciuto come il Cavaliere del Suca, e costringerlo finalmente a rivelare i reali rapporti del suo assessorato con l’agenzia Itaca o con l’editore Cairo: insomma, i suoi particolarissimi e costosissimi apparati di “stampa e comunicazione”. Ma una parolina prima o poi la nostra amatissima e immacolatissima Caterina Chinnici dovrà pur dirla. Una parolina sola, che non sia né ruvida né acida, che non suoni come un rimprovero, che non abbia i connotati rasposi e definitivi di una pagella, che non provochi nelle impomatate testoline del Bullo o del Balilla un trauma psicologico, un’ombra di disagio o di disappunto. La trovi, questa parolina, onorevole Chinnici. Prenda in mano il dizionario e scelga senza più esitare. Noi che, a causa del nostro lavoro, quel dizionario lo consultiamo spesso, le suggeriamo umilmente di usare per Musumeci, presidente di uno scandaloso e fallimentare governo di centrodestra, questo aggettivo: bricconcello. Il Bullo e il Balilla possono essere invece definiti tranquillamente discoli. Discoli e nulla più.