In principio fu il buio. E lo fu per gran parte del film, con una luce che pare faccia sempre fatica a venir fuori, atmosfere cupe, che nascondono più che svelare, tra ombre e penombre e, quando arriva, un chiarore qualunque, incerto o deciso che sia, lo fa sempre di taglio, obliquamente o, più risolutamente, dal fondo per sagomare i contorni, i volti, le cose, e ci sono sempre più albe e tramonti che giorni pieni, più soffocanti clausure che cieli da respirare, più neri che grigi o bianchi. Se non ci fosse di mezzo l’arte sapiente di Marco Bellocchio e questa sua scelta estetica, si potrebbe dire che Il traditore – il film su Tommaso Buscetta che da Cannes ha spiccato il volo nei cinema giusto ieri, 23 maggio, data non casuale – sia per gran parte opera di Vladan Radovic, un mago delle fotografia.

Visto da qui, dall’isola, proprio nel giorno della memoria, del martirologio, delle polemiche e dei veleni, fa un effetto strano. Perché ha la cifra dichiarata di un trattato sull’ambivalenza. Non che Bellocchio non prenda posizione, la prende eccome, quella civile e quella politica, quella dello sdegno per gli orrori della criminalità e quella della riprovazione per uno Stato colluso e omertoso. Ma il suo Buscetta – perché è di lui che ne Il traditore si racconta – non è certo un santo solo perché scoperchia il vaso di Pandora di Cosa Nostra con Giovanni Falcone, non è un eroe o uno che vuole affrancarsi («non sono un pentito», ripete come fosse un mantra) anche perché a quel giuramento lui si sente ancora legato, nonostante i corleonesi «viddàni» di Totò Riina lo abbiano stravolto, abbiano fatto a pezzi le tavole di quella legge (e sterminato parte della sua famiglia) per cui né donne, né bambini, né magistrati e via elencando l’irritante codice dei vecchi uomini d’onore.

Ha un’iconografia arcaica Cosa Nostra di Bellocchio, già dall’incipit, in quella festa nella villa di Bontade, una pesantezza mortifera con le luci fioche, i broccati, le porte che si aprono e si chiudono, gli sguardi occhiuti, le pistole a gonfiare i doppiopetto, l’allegria sempre ansiosa, in allerta, nonostante si stia firmando il patto tra mafia di città ed ex mafia di campagna, la foto di gruppo a suggello, la musica che fa fatica a riproporre la spensieratezza di contradanze antiche (Nicola Piovani ne espone benissimo il senso). E la “scanna” degli anni Ottanta è scandita solo da un’enumerazione che compare in basso, a sinistra, sullo schermo.

Su tutto però c’è lui, Buscetta-Favino. Interpretazione simbiotica ma di immensa misura, virtuosa senza gigioneggiare, quasi perfetta in un siciliano mai abbandonato, commisto talvolta al brasiliano e da questo addolcito. Varie sfaccettature emotive ma sempre sulla soglia vigile di una possibile, temibile e temuta empatia: il padre, il marito, l’amico, il collaboratore di giustizia, senza mai dimenticare il mafioso. Visioni e deliri onirico-psicoanalitici (Massimo Fagioli docet, buonanima): i figli uccisi che compaiono coi volti tumefatti sul corridoio dell’aereo che lo sta portando per l’estradizione in Italia, la litania delle donne-prefiche (la madre, le mogli) che piangono il suo cadavere prima che sia deposto nella bara mentre dorme nel letto della Divisione anticrimine di San Vitale, a Roma. Scene da segnalare: certo, gli incontri con Falcone (un maiuscolo Fausto Russo Alesi) ma anche gli “a tu per tu” con Totuccio Contorno (Luigi Lo Cascio in stato di grazia) ancora nella grama stanzetta divisa a San Vitale ricordando i “vecchi tempi” dell’Hotel Ucciardone o nel salone di auto usate di quest’ultimo – desideroso di tornare a Palermo per vendicarsi – nell’inverno nevoso del New Hampshire e ancora, fra tutte, l’incontro “in mutande” con Giulio Andreotti dallo stesso sarto dove a Buscetta stanno confezionando il vestito per la prima deposizione nell’aula bunker del “maxi” o le esitazioni durante l’interrogatorio proprio al processo Andreotti messo alle corde dal difensore del senatore, l’avvocato Coppi (un Bebo Storti tanto volpino quanto spietato).

Per noi “autoctoni” saranno forse meno avvincenti le ricostruzioni del “maxi” – più documentaristiche, più didascaliche – ma c’è il confronto con Pippo Calò (Fabrizio Ferracane) che è un bel pezzo di cinema. Lievi sbandate ingenue o retoriche: Buscetta che torna a Palermo e, dall’auto che lo scorta, legge sui muri scritte contro la sua “infamità” o si imbatte (nottetempo!) nel corteo di precari che inneggiano alla mafia che “dà lavoro” o ancora l’attacco del Va’ pensiero che sottolinea la lettura della sentenza nell’aula bunker (vabbè, Bellocchio è pur sempre emiliano come il buon Peppino).

Tredici minuti di applausi, ieri a Cannes: un buon viatico per la Palma d’oro? Chissà. Il traditore sempre da ieri è anche al verdetto delle sale: è un film che non divide, un film di testimonianza più che di impegno civile, come si diceva un tempo, un film di ammirevole pregio artistico. Per gli imminenti 80, è un buon regalo che Bellocchio s’è fatto.