Non c’è riuscita la diretta tv, né la narrazione della strage. Né il ricordo, condiviso e commosso, dei 1700 ragazzi che si sono ritrovati a Palermo dopo la traversata del Mediterraneo, partiti l’altra sera da Civitavecchia, destinazione Aula Bunker. Non c’è l’ha fatta Salvini con le sue 1800 assunzioni, tanto meno il ministro Bussetti con le sue ovvietà (“Falcone e Borsellino erano due supereroi ma senza i superpoteri”) a cambiare il corso delle cose. E a ridare a questo anniversario, che sembra una tortura da un po’ di tempo a questa parte, la dignità che merita. Partito sotto i peggiori auspici, il 27° anniversario della strage di Capaci – con il governo al gran completo convocato all’Ucciardone e la Sicilia, mestamente, in disparte – non ha regalato sorprese. E’ andato male. Piuttosto che rinsaldare l’unità nazionale, il ricordo di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo (anch’essa magistrato) e dei tre agenti della scorta, è diventato momento di tensione e divisione. Che poi è lo specchio del Paese, lo specchio della Sicilia, lo specchio dell’Antimafia: quella buona e quella cattiva. Solo che, talvolta, è difficile afferrare le differenze.

Non c’è riuscita la diretta tv, né la narrazione della strage. Né il ricordo, condiviso e commosso, dei 1700 ragazzi che si sono ritrovati a Palermo dopo la traversata del Mediterraneo, partiti l’altra sera da Civitavecchia, destinazione Aula Bunker. Non c’è l’ha fatta Salvini con le sue 1800 assunzioni, tanto meno il ministro Bussetti con le sue ovvietà (“Falcone e Borsellino erano due supereroi ma senza i superpoteri”) a cambiare il corso delle cose. E a ridare a questo anniversario, che sembra una tortura da un po’ di tempo a questa parte, la dignità che merita. Partito sotto i peggiori auspici, il 27° anniversario della strage di Capaci – con il governo al gran completo convocato all’Ucciardone e la Sicilia, mestamente, in disparte – non ha regalato sorprese. E’ andato male. Piuttosto che rinsaldare l’unità nazionale, il ricordo di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo (anch’essa magistrato) e dei tre agenti della scorta, è diventato momento di tensione e divisione. Che poi è lo specchio del Paese, lo specchio della Sicilia, lo specchio dell’Antimafia: quella buona e quella cattiva. Solo che, talvolta, è difficile afferrare le differenze.

Perché a vedere la lista dei presenti (Conte, Salvini, Bussetti, Bonafede) qualcuno si sarà convinto che la parte buona era lì. Era lo Stato. Ma a guardare quella degli assenti, no. Perché in questa lista, che nelle ultime ore si è ingrossata grazie alla retromarcia del sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, c’erano gli ultimi due presidenti della Commissione regionale antimafia: Nello Musumeci, che fra l’altro sarebbe anche l’attuale governatore, e Claudio Fava. Hanno deciso di disertare perché i presenti, quelli che la scaletta decisa “come al Grande Fratello” indicava come relatori, non avevano tutti ‘sti gran titoli per parlare. Tanto meno per mettere il cappello sulle conquiste (parziali) di uomini e donne siciliane che, dopo quarant’anni, non hanno ancora completato la loro mission. E talvolta s’interrogano, dato che in quella stessa aula si è alternata gente cui manca il senso delle Istituzioni, che promuove sottosegretari in odor di corruzione, o non ha mai brillato nel contrasto all’illegalità. Un aspetto che ha messo in fuga anche l’antimafia della resistenza, i duri e puri dell’ArciPalermo e dell’Anpi, le associazioni che ricevono sovvenzioni e contrastano racket o omertà.

A fare gli onori di casa c’era Maria Falcone. In altri tempi si sarebbe detto “un nome, una garanzia”. Mai come stavolta, però, la sorella del giudice ammazzato da Cosa Nostra, con la sua condotta, i suoi inviti e le sue precisazioni, ha finito per dividere. “Ma la scaletta degli interventi non è opera mia – s’è affrettata a dire dopo gli attacchi (soprattutto) di Claudio Fava – In aula bunker non parlano tutti i rappresentanti del potere in Sicilia”. Troppo tardi, la toppa è peggio del buco. La polemica non ruota soltanto attorno alla politica. Quella è la parte più appariscente, che strappa qualche titolo. Fra l’antimafia di lotta e di governo, mancava un pezzo della prima.

Mancavano i magistrati invocati da Fava – dal procuratore generale di Palermo a al procuratore della Repubblica di Agrigento, finito di recente nella black list di Salvini – che anch’essi rappresentano un pezzo di antimafia. Non s’è visto Nino Di Matteo, che va in giro con la scorta dalle stagioni delle stragi, il quale è rifuggito qualche tempo fa anche dalla convocazione della commissione regionale per fare due chiacchiere sul depistaggio di Via d’Amelio, ed è stato il pm che ha istruito il processo sulla Trattativa Stato-Mafia, tema di cui non s’è fatto minimamente accenno. Come se appartenere a un altro capitolo della storia, che poi è la stessa storia dell’aula bunker, imbarazzasse qualcuno. E’ stato questo il capitolo mancante che ha convinto il procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, a rimanersene fuori. Perché oltre a ricordare i morti – sacrosanto – avrebbe voluto dire qualcosina anche sui vivi, quelli che lavorano (da un lato) e quelli che si trincerano dietro un silenzio vile (dall’altro).

Oltre alle apparenze e i lustrini, oltre a questo gioco putrido del “vengo o non vengo”, spesso condito da una salsina elettorale e da motivi che sanno di retorica, sarebbe servito un segnale forte contro le mafie. Contro l’affarismo spietato. Un intervento che prescinde dalla portata dei numeri, che ogni tanto si piegano all’interesse. Una condanna unanime alla corruzione. Un elenco di speranze e di buone azioni. Che partano dalla storia e da quanto fatto – ecco che l’intervento dei “lottatori” veri sarebbe servito come il pane – con vista sul futuro. E, infine, un’equa considerazione per le vittime e i familiari delle vittime. Una richiesta di verità senza confini, da perseguire ad ogni costo. Sarebbe servito tutto questo. Sarebbe.

Anche da parte della politica, che tutto muove. Persino i funerali (come dimenticare le ovazioni per Salvini e Di Maio prima delle esequie per le vittime del ponte Morandi). E sfodera le armi peggiori, invadendo il campo della decenza. E’ successo non tanto all’aula bunker, ma fuori da essa. In un volantino per la precisione, in cui il Ministro dell’Interno inseriva l’appuntamento palermitano alla stregua dei comizi di giornata (ne avrebbe tenuto uno la sera ad Alessandria, all’altro capo della Penisola). E sotto un hashtag che mandava la colazione di traverso con su scritto #domenicavotoLega. Una svista, una barbara sufficienza. Un’occasione di campagna elettorale. Perché, se è vero come è vero, che il leader del Carroccio è sceso in Sicilia “con gioia e con orgoglio e non a prendere voti”, l’enunciazione trionfalistica del primo anno di governo – dalle 1850 assunzioni nelle forze dell’ordine, passando per i 15mila edifici confiscati alle mafie, per la palazzina di Platì restituita al catechismo o per l’edificio di Corleone divenuto un commissariato – sa tanto di marchetta elettorale, per cui qualcuno, dentro e fuori dall’Ucciardone, tra quelli che lo seguono su Facebook, potrebbe convincersi a puntare un penny sulla sua scalata a Bruxelles.

Abbiamo fatto questo, abbiamo fatto quello. La solita tiritera che non risparmia nessuno. Come non risparmia nessuno lo staff social di Salvini, che ha seguito la trasferta siciliana passo passo: dal giardino della Memoria di Capaci all’Aula bunker, passando da un rapido selfie in aereo, prima del decollo mattutino. Mai un briciolo di dignitoso silenzio. Né un intervento istituzionale che rimanga lì, nei luoghi della memoria, lì e basta, senza dover per forza rimbalzare sui social alla ricerca di un “like”, di un’approvazione o di una promessa di voto per domenica. Lo stesso ha fatto Bonafede, il ministro della Giustizia, che tenta di copiare Salvini e ci riesce malino, almeno nei numeri. E al primo spruzzo di concretezza se l’è data a gambe: “I buchi nelle indagini? In quanto ministro non parlo delle indagini in corso, lo Stato però ha l’obbligo di accertare la verità”.

Un po’ meno evoluto Bussetti, che ha approfittato della gita a Palermo – ma era lui il reale padrone di casa, avendo il Ministro dell’Istruzione sovvenzionato l’associazione Falcone e indirizzato la scaletta – per fare un salto dall’insegnante sospesa. Con Salvini, che prima aveva promesso di incontrare i suoi alunni e poi, dopo aver visto la prof e annunciando la revoca del provvedimento, è sparito nel mare magnum della propaganda: “Li vedrò all’inizio del nuovo anno scolastico” ha promesso ai cronisti. E dall’alto della sua sobrietà, non poteva mancare Giuseppe Conte, capo del governo un po’ per caso: “Oggi ricorre l’anniversario di una tragedia e ricordiamo un giorno di dolore. Questa commemorazione è diventata la festa della legalità”. E persino Fico, il presidente della Camera, che svetta per buone intenzioni: “Serve un piano Marshall nelle scuole, un piano culturale nei quartieri difficili. Noi avanziamo e loro pure, dobbiamo essere capaci di sconfiggerli. Tutti i Ministeri devono avviare dei piani in 10 anni da verificare ogni 6 mesi. Bisogna investire risorse per assumere professori, assistenti sociali, creare centri di aggregazione nei quartieri difficili. Dobbiamo andare nelle scuole a prendere i figli dei camorristi e portarli su una strada diversa. Se non lo facciamo la mafia si rigenererà”. La guerra dell’antimafia e la guerra elettorale. All’aula bunker gli scaffali erano pieni. Di voti e di ovvietà.