Quando Federico Fellini girò La voce della luna, vide, tra i volti di attori che gli arrivavano sulla scrivania, la faccia seriamente comica di un siciliano. Un Mamo, una maschera come ne nascono con parsimonia ogni cento anni. “Lo voglio”, disse il mago del cinema, “fatelo venire”. Quell’attore – erano già gli anni Ottanta – era conosciuto nel mondo teatrale, molti i successi macinati che lo avevano visto, anche a fianco di grandi interpreti, tenere la scena con la padronanza di un Buster Keaton e con l’irresistibile affidabilità comica di un Charlie Chaplin, molti gli spettacoli che avevano sollevate nella gioia delle risate le sale dei maggiori teatri italiani e internazionali.

Stiamo parlando di Tuccio Musumeci, al secolo Musumeci Concetto di Catania. Egli, anche se col disincanto perenne che ha guidato la sua carriera e la sua vita, si presentò al grande maestro folgorandolo ancora di più. Fellini gli affidò la parte, lo voleva a tutti costi. Musumeci invece no, e rifiutò. Ma il suo rifiuto non era dettato dal fatto che non gli piacesse il ruolo, e meno che mai Fellini, che pur non comprendendo appieno la sua filmografia ammirava sopra tutti. No, il suo rifiuto era fatalmente mediterraneo. L’idea di andare a girare quel film nel freddo inverno, anche se negli studi pontini, svegliandosi la mattina presto e lontano dalla sua amata Catania lo intirizziva al solo pensiero. Perciò, no, caro maestro Fellini, non poteva accettare quel ruolo a quelle condizioni di pericolosa latitudine e scandalosa organizzazione temporale.

La vita e il talento di Musumeci sono inversamente proporzionali al successo planetario e economico che non ha avuto. Un genio del tempo comico come il Tuccio catanese non esiste forse al mondo: le sue battute non sgarrano mai un effetto comico, la grande serietà professionale di non mancare mai la risposta a tempo al compagno in scena, quasi fosse un Pelè della palla comica che segna ad ogni partita, sono la sua inconfondibile firma. Ma la pigrizia indolente della brancatiana Catania lo ha tenuto legato ai suoi luoghi di nascita e crescita. Adorato da Turi Ferro, formidabile partner con un altro grande comico come Pippo Pattavina, il Tuccio dell’indimenticabile Pipino il breve, non ha mai sentito nostalgia del successo o – come spesso lo chiamano i siciliani – del Nord! Raccontano i colleghi, che con lui hanno fatto svariate tournée, che egli parte sempre con una valigetta simil ventiquattrore, anche per star via settimane intere, come a voler ricordare a se stesso: domani torno a casa.

Ma è anche questo il grande teatro siciliano, quello che racconta la maschera agrodolce della terra senza menestrellare facezie alla corte dei potenti. E il nostro Comedien l’ha saputa incarnare ritagliandosi un posto di tutto rispetto nell’Olimpo delle grandi maschere del teatro popolare italiano, Govi, Macario, Nino Taranto, Totò: un teatro fatto di appartenenza, malinconia e gioia di vivere insieme. Attori che nella recitazione hanno tessuto i ricami di un imperituro personaggio, oltre l’autore, oltre la regia, oltre il teatro che li ha nutriti per decenni. Fondatore del Teatro Stabile di Catania – insieme ad altri teatranti di spessore della scena teatrale siciliana –, si allontana quasi per sempre da questo quando sente, è lui a dichiararlo, l’invasione a scarponi chiodati della politica. Quasi sentendosi rubare il mestiere da comparse senza talento che di colpo si interessavano al teatro solo per cercare di piazzare – dietro questua di voti – questo o quell’attore, decide di non accettare più dal suo teatro alcuna proposta. E, vedendo il futuro con occhio veritiero, preferisce rintanarsi con successo nel suo teatro Brancati di Catania dove può continuare ad essere se stesso e, come si dice dalle sue parti “non dare conto a nessuno!”.

Una piccola deroga la fa nel 2013, tornando allo stabile catanese per una ripresa di uno spettacolo che gli era piaciuto fare – e che noi abbiamo visto nel 2005 al romano Teatro Eliseo – dove insieme ad un magistrale Pattavina dimostra a tutto il teatro nazionale di non essere da meno di mostri sacri quali Totò e Peppino. Quello spettacolo era La concessione del telefono, e il suo affetto nei confronti degli autori Camilleri e Dipasquale lo aveva riportato per una volta ancora sulle scene dello Stabile etneo.

Tuccio ha da poco compiuto gli ottanta anni e di questo mestiere è un Guru, involontario certamente, ma degno di consegnare un magistero teatrale alle generazioni più giovani che molto spesso fanno rimpiangere il talento di questi grandi. A lui, pur non conoscendolo di persona, ci sentiamo di dire: il mondo è cambiato attorno a te Tuccio, ma il tuo talento no. Regalacelo per altri ottanta e ottanta e ottanta anni ancora.