Ancora 35 giorni d’incertezza e poi il governo regionale dovrà rimboccarsi le maniche. E l’Ars di conseguenza. Il 13 dicembre, infatti, è fissato il giudizio di parifica della Corte dei Conti sul rendiconto 2018. Un atto propedeutico per rimettere in moto una macchina ferma da troppo tempo. Ottenuto quello, nell’arco di poche settimane, bisognerà approvare l’assestamento e mettere mano alla nuova legge di Bilancio. Non sarà facile, e il perché è intuibile. La questione del voto segreto implica tempi incerti. E il rapporto fra governo e parlamento è ai minimi storici. Con Micciché spettatore per motivi di salute, ci ha pensato Musumeci (ancora) a redarguire i deputati. Rei di aver affossato l’articolo 1 della riforma sui rifiuti, rovinando in un pomeriggio il lavoro di un anno. Musumeci, che accusa l’opposizione di essere troppo opposizione, si è inferocito anche coi membri della sua maggioranza che, incuranti di quanto fosse delicato il passaggio in aula, hanno preferito assentarsi (Musumeci li aveva chiamati a raccolta tutti quanti, pregandoli di cancellare qualsiasi impegno) o, nel segreto dell’urna, a votare contro.

E’ stato peggio anche il seguito. Quando una nutrita schiera di avvocati difensori del presidente, ha iniziato a sventolare il vessillo dell’indignazione per colpire Pd, 5 Stelle e Claudio Fava. Senza fare i conti al proprio interno. Con una maggioranza coesa e al completo – ma bisognava rinunciare a missioni e mal di pancia – i numeri per andare avanti, seppur risicati, c’erano. Ma in sei hanno preferito non presentarsi, e il castello di carte è crollato. A furia di chiamarli vili e infedeli, Musumeci ha ottenuto l’effetto opposto e si è sempre ritrovato con la coperta troppo corta. E ha eretto un muro fra palazzo d’Orleans e palazzo dei Normanni. Un muro cementato dalla presenza di Gaetano Armao, un assessore di Forza Italia inviso a Forza Italia. Che il suo partito non vorrebbe più lì, ma che è costretto a sorbirsi. Non appena l’attenzione si sposterà nuovamente sui conti (a brevissimo), sarà persino più difficile per il governo portare avanti le sue pratiche.

Monnezza a parte, sono settimane d’attesa a Palermo per capire se e come la Regione potrà tornare a spendere. L’annus horribilis delle finanze è cominciato il 28 dicembre scorso, quando la giunta – ritenendo impossibile l’approvazione della manovra entro l’ultimo dell’anno – è stata costretta a varare un mese di esercizio provvisorio. Poi è iniziata una sessione di bilancio infinita, che si è conclusa a settembre (dieci mesi dopo), quando da palazzo d’Orleans hanno consigliato al presidente dell’Assemblea di stoppare l’ultimo collegato e tutte le norme di spesa contenute al suo interno. “In via prudenziale” ha specificato Musumeci in una comunicazione a Micciché.

Poi ci si è messo il Consiglio dei Ministri, che ha impugnato una norma del “collegato generale” in cui si sbloccavano 141 milioni di euro che nella Legge di Stabilità erano già stati “congelati” in attesa di conoscere le modalità di dilazione del famoso disavanzo che dal 2015 pesa sul destino della Regione. Di fatti, non si tratta di un debito vero e proprio. Ma di un gap fra entrate e uscite – tecnicamente è la cancellazione di crediti e debiti non più esigibili – che, in base alle nuove regole di armonizzazione contabile, lo Stato non può più tollerare. Attorno a questi 780 milioni (circa), è sorta una polemica dai toni aspri fra i maggiori rappresentanti dell’attuale governo di centrodestra, tra cui il presidente Musumeci e l’assessore all’Economia Armao, e alcuni esponenti del vecchio esecutivo a guida Crocetta, in modo particolare i rappresentanti del Pd.

Secondo Armao, infatti, i responsabili del pasticcio vanno ricercati nel 2015, quando l’ex assessore all’Economia Alessandro Baccei, non avrebbe accertato l’intero disavanzo, come richiesto dal decreto legislativo 118, ma solo una parte di esso: “Nel dicembre 2015 – ha spiegato Armao in una recente intervista a Live Sicilia – si doveva provvedere al riaccertamento straordinario del disavanzo. A quel tempo fu accertato un disavanzo di 5 miliardi e a dicembre fu ridotto a 3. I 2 miliardi sono emersi oggi. Il problema è che solo in quel momento si poteva fare il ripianamento trentennale. Noi siamo riusciti a spalmare un miliardo e mezzo in trent’anni, ma la residua parte deve essere spalmata con le norme correnti”. In tre anni, anziché in trenta. Anche se il governo sta provando ad addolcire la pillola.

La commissione paritetica Stato-Regione per l’attuazione dello Statuto, infatti, ha già deliberato una norma che prevede il ripianamento del disavanzo in dieci anni. Ma c’è un “però”, checché ne dica Armao. In un parere delle sezioni riunite della Corte dei Conti di Roma – indirizzato formalmente alla commissione e non ancora alla Regione – il tentativo di rateizzazione viene giudicato “inopportuno”. La Corte fa notare come la richiesta proveniente da Palermo costituisca una “fattispecie per certi aspetti analoga” a un caso su cui si era già pronunciata negativamente la Corte Costituzionale. La Consulta aveva impedito la possibilità che il disavanzo scoperto dopo il riaccertamento straordinario potesse essere spalmato in un lungo periodo di tempo. Il motivo? Evitare una violazione dell’equità intergenerazionale e cioè che i figli, o addirittura i nipoti, paghino i debiti dei nonni e dei padri.

Nonostante il precedente, e la questione di inopportunità sollevata dalla Corte, Armao non si arrende: “Toccherà alla commissione paritetica, che non si è ancora ricostituita dopo la nascita del nuovo governo nazionale, decidere se condividere la valutazione di opportunità della Corte o se mantenere la norma nello schema di decreto legislativo – ha spiegato l’assessore all’Economia, che fatica a dirimere la vicenda –. Si tratta di una valutazione di carattere politico istituzionale”. Che potrebbe concludersi ben oltre la fine del 2019, costringendo a un altro, lungo time-out.

Ma il giudizio della magistratura contabile, che solitamente viene emesso a fine giugno, quest’anno tarda ad arrivare. E fa paura. Potrebbe accertare un debito maggiore di quello venuto a galla finora. In estate, fra i giudici e la ragioneria generale di palazzo d’Orleans, è andato avanti un fitto carteggio che ha costretto la Regione a cestinare il primo rendiconto e a produrne uno nuovo (approvato l’8 agosto) con una serie di integrazioni e correzioni. Da cui è emerso un altro “buco” da 400 milioni di euro, che per poco non rischiava di mandare all’aria i rapporti già molto tesi fra governo e Parlamento. La nuova istruttoria della Corte dovrebbe concludersi entro oggi. Entro il 25, invece, i magistrati relatori scriveranno uno o più atti di deferimento per segnalare ulteriori pecche. Il 5 ci sarà la pre-parifica, da cui emergerà certamente un quadro più chiaro. E non per forza migliore.

Dopo il 13, invece, approderà all’Ars il rendiconto parificato. L’aula dovrà inoltre votare entro la fine dell’anno l’assestamento di bilancio: da un lato, per approvare un piano di rientro dall’eventuale maggiore disavanzo certificato dalla Corte dei Conti; dall’altro per evitare i “tagli”, che potrebbero abbattersi come una scure su alcuni settori strategici. Anche se di recente, convinti che l’impugnativa del Consiglio dei Ministri sarà rimossa dalla Consulta, il governo ha dato il “via libera” al ragioniere generale per sbloccare una parte dei 141 milioni di euro “congelati”. Si parla di circa 114 milioni, che verranno riversati sui forestali e sul trasporto pubblico, ma anche ai malati talassemici, ai consorzi di bonifica e agli ex Pip. La parte restante della somma sarà recuperata in fase di assestamento.

L’orizzonte, comunque, resta cupo. Anche se gli astri, da qui al prossimo 13 dicembre, dovessero allinearsi, la Regione sarà costretta a una faticosissima corsa a ostacoli. Con evidente anticipo sul brindisi di Capodanno, Nello Musumeci ha spiegato che la Sicilia comincerà il 2020 in esercizio provvisorio: “Stiamo lavorando alla nuova sessione di Bilancio – ha ammesso il governatore – ma anche le pietre capirebbero che serve tempo”. La prossima legge di stabilità, con le limitazioni imposte dal governo nazionale e dalla Corte dei Conti, rischia di essere asfittica. Il classico bagno di sangue. A quel punto aver rimesso tutto in ordine non basterebbe. Sarebbe come lucidare una stanza senza arredamento. E servirebbe solo a lavarsi la coscienza.