Dal “signore della droga” di Brancaccio, al secolo Paolo Luisi; passando per la moglie di Giancarlo Avarello, uno dei sicari del giudice Livatino. Sono passati quasi due anni dall’introduzione del reddito di cittadinanza e il risultato è questo: un fiume di scandali che trascina con sé molti esponenti della criminalità organizzata. Da Palermo a Catania, da Messina ad Agrigento: i boss delle cosche utilizzano la card gialla di Poste Italiane per fare acquisti e “schermare” le loro attività più losche, sfuggendo a sequestri e confische da parte delle forze dell’ordine. Chi potrà mai dubitare di una famiglia indigente? Luigi Di Maio avrebbe voluto introdurre la figura dell’agente provocatore per portare a galla il sistema di corruttela nella pubblica amministrazione. In realtà ha usato il reddito di cittadinanza, un deterrente alla povertà, per sbattere in copertina vecchi big della mafia che troppo a lungo, e impunemente, si sono presi gioco dello Stato. Grazie a una semplice autocertificazione.

La truffa più recente, scoperta dalla Guardia di Finanza di Palermo, ammonta a 1,2 milioni di euro. Tra i finti poveri ce n’era uno, Nino Lauricella, che i picciotti di Cosa Nostra chiamavano ‘u scintilluni’ per i suoi capi colorati. Il re della Kalsa, di cui negli anni ’80 si era arrivato ad occupare anche il giudice Giovanni Falcone, si era messo in tasca 7.126 euro. La normativa del reddito di cittadinanza esclude dalla possibilità di richiedere la misura coloro che, negli ultimi dieci anni, hanno precedenti penali per reati legati alla criminalità organizzata o al terrorismo. Ma anche i loro familiari. Ad averlo percepito, però, sono Raimondo Etro, coinvolto nel sequestro di Aldo Moro e nell’omicidio del giudice Palma; l’ex brigatista rossa Federica Saraceni, condannata a 21 anni per l’omicidio del giuslavorista Massimo D’Antona; Massimiliano Gaeta, esponente del Partito Comunista politico militare, che la giudice Ilda Boccassini non esitò a definire un’organizzazione terroristica. Tutta “brava gente” che s’è fatta spazio nelle maglie – troppo larghe – del provvedimento approvato nel 2019 dal governo gialloverde.

Ma per venire ai pesci piccoli, basta fare un salto in Sicilia. Nell’ultima retata contro le famiglie della Kalsa, di Resuttana, Passo di Rigano, Partinico e Carini, e di quelle affiliate al clan degli Inzerillo e dei Lo Piccolo, 95 persone (più alcuni familiari) sono stati denunciate per dichiarazioni mendaci e truffa allo Stato. Dovranno restituire all’Inps l’intero beneficio. Tra questi Domenico Caviglia, un esattore del pizzo agli ordini di Salvatore Lo Piccolo; Bartolo Genova, l’ex reggente del mandamento di Resuttana; ma anche Alessandro Brigati, vicino ai Vitale di Partinico. Condannati per reati di mafia che ora, a distanza di qualche anno, riconquistano il palcoscenico per aver aderito alla misura che oggi, per qualcuno, rappresenta un argine alla povertà. Ma che purtroppo – parlano i fatti – non è riuscita nell’intento sperato: permettere a disoccupati e inoccupati di rientrare nel mercato del lavoro.

Per citare gli ultimi casi – clamorosi – di boss che si nutrono del reddito di cittadinanza, basta fare un salto in provincia di Trapani. Dove, fra le 127 persone segnalate, alcuni beneficiari erano fiancheggiatori di Matteo Messina Denaro, che tuttora è latitante. L’ultimo padrino di Cosa Nostra. A Salemi, ad esempio, per qualche tempo è riuscito a farla franca Salvatore Angelo, ritenuto il signore dell’eolico per conto del superlatitante. L’uomo (condannato a 8 anni per associazione mafiosa) era stato arrestato nel 2012 insieme a altri esponenti di spicco delle famiglie di Salemi e di Castelvetrano, nell’ambito dell’operazione “Mandamento”, che aveva messo in luce il sistema di infiltrazione mafiosa legata alla realizzazione dei parchi eolici della provincia di Trapani ed Agrigento. Avevano percepito l’assegno, inoltre, le mogli di altri tre fiancheggiatori di Denaro: Francesco Luppino, Matteo Tamburello e Maurizio Arimondi. Oltre all’imprenditore edile Vito Russo, che ha nascosto la condanna per mafia, spremendo alle casse dello Stato oltre 7 mila euro.

Nella Sicilia orientale, dalle parti di Messina, percepivano il sussidio persone legate, a vario titolo, alle cosche più importanti della provincia: Santapaola-Romeo, Sparacio, Spartà, Galli, Batanesi-Bontempo Scavo, De Luca, Mangialupi, Camaro, Tortoriciani, Ventura, Ferrante e Cintorino. Tra le attività illecite contestate dalle forze dell’ordine spiccano estorsioni, usura, traffico di sostanze stupefacenti, voto di scambio, maltrattamento e organizzazione di competizioni non autorizzate di animali. Anche a Catania, a fine gennaio, sono stati scovati 78 “furbetti” del reddito, tra cui alcuni pregiudicati per reati di mafia. Era il secondo tempo dell’operazione portata a termine qualche mese prima della Fiamme Gialle e costata la denuncia ad alcuni esponenti del clan Cappello. A settembre la compagnia dei Carabinieri di Viagrande aveva beccato con le mani nella marmellata un 58enne di Aci Bonaccorsi, già condannato per associazione di tipo mafioso, perché considerato affiliato al clan Laudani.

Anche la provincia di Agrigento non è rimasta immune: percepiva il reddito di cittadinanza la moglie di uno dei sicari del giudice Rosario Livatino: quel Gianmarco Avarello condannato a sette ergastoli per aver voluto fortemente il delitto. Peccato che la signora Avarello se ne fosse dimenticata nel momento della compilazione della richiesta. “La storia di Avarello – spiegava Carmelo Sardo, giornalista del Tg5 e originario del posto – è un film di morte e di terrore. Ed è uno dei pochi che non si è pentito, né giudiziariamente, e neppure sotto il profilo sociale e umano”. A Palermo, infine, uno dei casi più emblematici riguarda Paolo Luisi, che riceveva i sacchetti della spesa – acquistati con la card gialla della madre del boss – nell’appartamento in cui trascorreva la latitanza. A consegnarglieli era stata la fidanzata.

La misura del sussidio, in funzione di questi esempi, non può dirsi fortunata. Né, dal punto di vista dell’efficacia, si è dimostrata all’altezza. Al 31 dicembre, in Sicilia i percettori sono aumentati del 33% rispetto a luglio 2019 (adesso sono 551 mila, con 224 mila nuclei familiari interessati), anche a causa della pandemia. Ma la fase-2, quella che in basa alla sottoscrizione di un patto per il lavoro, avrebbe dovuto garantire un impiego ai disoccupati, totalmente collassata. Solo il 25% dei beneficiari, lo scorso ottobre, aveva trovato un impiego. Temporaneo, va da sé. E più in generale chi dovrebbe procurarglielo (i navigator) si scontra con le carenze di Anpal da un lato – che fine ha fatto la piattaforma promessa dal patron Mimmo Parisi, per incrociare domanda e offerta? – e con l’inerzia di molti “divanisti” dall’altro, che alla prospettiva di un lavoro faticoso, antepongono l’assegno facile.

E’ recente il caso di un imprenditore di Corigliano, in Calabria, che da un paio di settimane è alla ricerca di due tecnici informatici da inserire nel proprio organico e ha interessato a tale scopo il Centro per l’Impiego locale e gli istituti tecnici superiori, oltre ad avere pubblicizzato l’offerta sui social. A rispondere, però, sono stati in pochi e con delle richieste inaccettabili. “Posso lavorare ma in ‘nero’, perché non voglio perdere il reddito di cittadinanza”, oppure “se mi date il doppio del sussidio vengo a lavorare per voi”. “Sono sconcertato – ha spiegato il titolare dell’azienda – dalle risposte che ho avuto e questo mi fa capire che non è un problema di mancanza di lavoro, ma di una logica assistenziale che si è protratta per troppo tempo, diventando una cancrena per la nostra terra. Ho pensato persino di denunciare quanto sta accadendo alla Guardia di finanza. Anche dal Centro per l’Impiego non abbiamo avuto risposte e allora mi domando a cosa sia servita la figura del cosiddetto ‘navigator’”.

“Il reddito di cittadinanza ha contribuito significativamente a ridurre la platea dell’esclusione e della marginalità fornendo un reddito minimo garantito”, spiega la Svimez. Ma forse la misura andrebbe ripensata, rivista, calata in uno scenario nuovo. Anche il ministro degli Esteri Di Maio, padre di questa iniziativa e facile frequentatore di balconi, aveva auspicato un “tagliando”, spiegando che occorre “ripensare alcuni meccanismi separando nettamente gli strumenti di lotta alla povertà dai sostegni al reddito in mancanza di occupazione”. E, inoltre, introducendo un controllo più severo ex ante, come richiesto da Maria Falcone, sorella di Giovanni: “È evidente che il meccanismo dell’autocertificazione e l’assenza di controlli preventivi, che garantiscano che il beneficio economico che dovrebbe sostenere persone bisognose vada a chi non lo merita e finanche a chi ha commesso reati gravi come quelli di mafia, producono storture gravissime. Non fa bene alla credibilità delle istituzioni”.

Sulla stessa linea il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando: “Il Reddito di cittadinanza ha rappresentato e rappresenta uno strumento importante per combattere disagio e povertà e dai doverosi e approfonditi controlli emerge che la stragrande maggioranza dei percettori sono persone e famiglie in effettivo stato di necessità. Non può però lasciare perplessi il fatto che alcune decine di condannati per reati gravi e gravissimi abbiano comunque potuto beneficiarne prima di essere scoperti. Nell’epoca della interconnessione digitale e della richiesta a cittadini e imprese di dotarsi d’identità elettronica, è importante che tutte le pubbliche amministrazioni siano dotate di strumenti informatici di verifica adeguati, per esempio con l’interconnessione fra le banche dati della Giustizia con quelle dell’INPS. In questo modo le eventuali dichiarazioni false vengono subito scoperte e sanzionate, alleggerendo anche i compiti propri di INPS per la Famiglia e GdF”. Draghi, che vorrebbe tanto intervenire, ha le mani legate, e in questa prima fase preferisce non inimicarsi i grillini. La vetrina degli scandali dovrà un po’ ingrandirsi per ospitarli tutti. Col reddito d’inclusione, precursore di questo sussidio disperato, non se ne contavano così tanti.