Noi settantenni siamo fatti così. Ci sono giorni in cui crediamo di tenere il mondo tra le mani, di spostare con uno sguardo la montagna più rocciosa, di svolazzare dalla città alla campagna, di progettare vite future e viaggi temerari; anche di lanciarci con un paracadute dall’aeroplanino rattoppato del barone Monkausen. Ma ci sono giorni in cui – non sai perché né per come – ti soffermi davanti allo specchio per vedere se si è stampata sulla faccia un’altra macchiolina, se sono cresciuti due peli in più sul lobo sinistro dell’orecchio; e poi ti aggiri per il bagno, tra la vasca e il lavandino, spaventato da morire perché, nell’abbottonarti il polso della camicia, hai notato un leggero tremolio della mano e hai pensato, sì che ci hai pensato: e se fosse il sintomo di una nuova malattia? Hai voglia di drizzare le spalle, di stirare i muscoli, di guardare se c’è una linea di colesterolo in più o una punta di glicemia in meno o di ripassare in fretta e furia la tabellina del sette per verificare che la memoria è intatta, viva e vegeta come negli anni della scuola elementare. Perché il dubbio si è già appiccicato sul tuo viso, e ti ha anche regalato un leggero brivido sulla schiena.

Noi settantenni siamo fatti così. Un giorno siamo felici, felicissimi perché i figli – sensati e maturi – ci hanno lasciati soli, in questa Palermo fiammeggiata dal sole, e sono andati via: uno a Roma e l’altra a Milano, “la Milano del fare” va da sé. Siamo felici e orgogliosi perché, come ci diciamo da sempre, è la giostra della vita, ed è giusto che ciascuno segua la propria strada. Ma il giorno dopo cominci, fin dal mattino a guardare l’orologio: aspetti, con una impalpabile frenesia, la chiamata di uno dei due e sai bene che, se non arriva, non ti alzerai dalla poltrona. Perché con l’aria che tira – con quest’aria ammorbata, stavo per dire – ogni cosa è diventata più difficile e tu vuoi sapere se stanno tutti bene; perché dopo un anno di lockdown e zone rosse, di divieti e tamponi, di autocertificazioni e viaggi impossibili, vuoi soprattutto sentire la voce di quelle due faccine che albergano costantemente nella tua mente, che occupano i tuoi pensieri, che alimentano i tuoi sentimenti, che illuminano di luce e di porpora i giorni più scuri, che ti regalano leggerezza, che ti artigliano con la loro innocenza e ti portano lassù, nel blu dipinto di blu, nei cieli alti della fantasia. Sono le faccine dei miei nipoti. Da quando c’è piovuta addosso la pandemia, la loro voce tambureggia nelle orecchie, dolce e straziante: “Nonno, quando vieni?”, mi ripete Giuseppe, detto Pepe, a chiusura di ogni telefonata. “Promettimi che ci vediamo presto”, gli fa eco Maya. E in questo teatro delle evanescenze, sospeso tra la speranza e le invocazioni, la nostalgia mi avvolge e mi travolge come un fiume di lava e di miele. Proprio mentre il Covid mi incatena senza pietà.

Mi incatena soprattutto la paura: io sono un soggetto che le burocrazie sanitarie definiscono “fragile”. Le statistiche mi spaventano e quando mi assale la tentazione di prendere l’aereo per Roma torno puntualmente, da malmostoso settantenne, ai miei abituali tormenti. Un giorno consulto il sito dell’Alitalia con la determinazione di chi ha deciso di partire contro tutto e tutti, di sfidare virus e virologi, di mettersi sotto i piedi le teorie del professor Galli e anche le raccomandazioni del professor Pregliasco. Come un Giulio Cesare che va all’attacco, che passa il Rubicone al grido dell’alea jacta est. E se Cesare non basta, quel giorno tiro fuori, dalle memorie del liceo, persino Sant’Agostino, nella morbida traduzione di Manlio Sgalambro, filosofo siciliano: “L’individuo vive quel tanto che è necessario per morire”. E con quelle parole scolpite sui bicipiti come un tatuaggio mi sento forte e coraggioso, intrepido e ferrigno. Ma il giorno dopo, quando c’è da chiudere l’acquisto del biglietto, la fermezza si attorciglia all’albero dei dubbi, delle perplessità, dei tentennamenti; e lo slancio scivola lentamente verso le acque appannate e mollacchie della cautela. Mi tornano alla mente le immagini ossessive delle terapie intensive, quelle che ci hanno assediato per un anno intero, quelle dove medici e infermieri sono irriconoscibili, avvolti nelle tute e nelle mascherine, e i pazienti sono intubati per aiutare i polmoni e tenere lontano il fiato selvaggio della morte. Rivedo anche i camion militari di Bergamo che marciano nottetempo verso i cimiteri. Mi angoscia il verso tragico e inquieto di Isaia: “Sentinella, quanto resta della notte?”. Mi raggiunge il pianto lontano delle mogli che non hanno visto morire i mariti, dei figli che non sono stati ammessi al funerale delle loro madri, dei nipoti che non hanno potuto salutare i nonni spenti dalla crudeltà della pandemia.

Ogni slancio dell’anima è già un’epopea: così ho scritto, quando ero al ginnasio, a una ragazza della quale mi ero innamorato perdutamente. Avevo appena sedici anni. Ma oggi, con l’età che mi ritrovo, per di più impasticciata con un punto di colesterolo e un filino di glicemia, come potrò affrontare il rischio di un volo, con i passeggeri stipati dentro come sardine, con le facce imbavagliate dalle mascherine e gli occhi sgranati dal timore di una turbolenza? E’ da Natale che vado avanti così, con questa oscillazione perenne tra Cartesio e Pascal, tra le paure della mente e le ragioni del cuore, tra i buoni propositi e la titubanza. Ed è da Natale, o giù di lì, che aspetto l’arrivo di un angelo del cielo che mi porti lo scudo della vaccinazione.

L’angelo, con la sua manina benedetta, per la verità ha già sfiorato la mia tempia ma la lunga marcia verso l’immunità non è ancora finita. Il 22 marzo ho ricevuto la prima dose di Pfizer, ma per la seconda dovrò aspettare fino al 14 aprile. La liberazione, purtroppo, prevede due tappe. Dopo, se tutto andrà bene, il mar Rosso dei divieti si aprirà e inghiottirà in un colpo solo le tante nuvole nere che hanno accompagnato questa infelice stagione. Finalmente potrò partire per Roma. Volerò sulle ali della libertà e, sicuro di non infettare e di non infettarmi, potrò abbracciare Pepe e Maya. Sarà una danza di allegria e felicità, una sagra della primavera che nemmeno il grande Stravinskji potrebbe scrivere in maniera più bella e più coinvolgente. Ma succederà?

Quasi quasi stavo per crederci. Senonché Pepe, proprio stamattina, ha gelato ogni programma e ogni ambizione. “Nonno, andrà meglio se vieni a maggio”, ha tagliato corto al telefono. “Fino al 30 di aprile sarà tutto chiuso e non potremo nemmeno andare a mangiare una pizza fuori”, mi ha notificato di rincalzo Maya. Fine della festa.

Per carità, non posso certo dire che in questo anno grigio e penitenziale io non abbia visto crescere i miei nipoti. La tecnologia è ormai in grado di tagliare ogni distanza, anche gli oceani. Basta una videochiamata e zac, ti rendi conto di come gli si sono schiariti i capelli, ammiri la maglietta che indossano, leggi nei loro occhi gli entusiasmi, le emozioni, le gioie e le aspirazioni. Ti parlano dei compiti già fatti e di quelli ancora da fare. Ti chiedono magari di aiutarli a trovare il participio passato di un verbo latino, o il significato dell’ultimo sonetto del romantico William Wordsworth, quello che comincia così, Fair daffodils, sul quale li ha appena intrattenuti il professore di inglese. E tu stai al gioco. Anzi, per coinvolgerli e sentirti di famiglia, gli parli pure dei tuoi anni passati, come Baudelaire, “sotto il cielo quadrato di un collegio”. Ma alla fine della corsa, fatta sul filo di internet, avverti comunque un inconfessabile senso di delusione, e sai che il vuoto che ti balla tra il petto e lo stomaco è dovuto al fatto che non hai respirato il loro respiro e ti è mancato l’odore della loro pelle.

Strano amore quello che lega un settantenne a due ragazzini di quindici e dodici anni. Nel 2005, quando mi dissero che sarei diventato nonno non seppi fare di meglio che pensare a mio nonno, il cui nome, va da sé, non poteva che essere Giuseppe. Sì, proprio a lui, a quel povero cristo basso, tarchiatello e con gli occhi azzurri che il Padrederno, in un giorno di negligenza, aveva sdirupato su un pizzo di montagna, al centro della Sicilia, tra i Nebrodi e le Madonie, lontano dal mare e lontano dall’Etna. Un pezzo di terra senza storia e senza memoria, da dove non erano mai passati né Empedocle né Archimede né altri illustri siciliani. L’unica figura nobile che aveva calpestato quelle zolle di grano duro – e continuava imperterrita a calpestarle – era la baronessa Li Destri. Che ci accerchiava con i suoi feudi, quello di Regiovanni e quello di Casalgiordano.

Mio nonno non era altro che uno dei venticinque mezzadri. Esposto per tutto l’anno all’acqua e al vento non aveva altro traguardo nella vita se non quello di assicurare a tutti noi pane e companatico. Bene o male c’è riuscito, parce sepulto.

Proprio in quel tempo – si era nel pieno degli anni Cinquanta – il genio di Giuseppe Tomasi di Lampedusa dava alle stampa il grande romanzo della sua vita: il Gattopardo. Ma noi, di quelle storie, sontuose e malinconiche, non sapevamo quasi nulla. Non sapevamo niente di Donnafugata, niente del principe e dei suoi dialoghi con le stelle, niente del regno borbonico né dei garibaldini, niente di Tancredi né di Padre Pirrone, niente di Sedara né della bellissima Angelica. A volerci impegnare, potevamo trovare una lontana affinità con Ciccio Tumeo, il personaggio al quale ha prestato il suo volto, nel film di Visconti, il francese Serge Reggiani. O con Bendicò, perché anche noi avevamo un cane di “deliziosa balordaggine”. Per il resto, l’unica pagina che narrava la nostra storia era quella che sembrava descrivere, manco a dirlo, Monte Zimmara, la nostra contrada: “Riapparve l’aspetto della vera Sicilia, quello nei cui riguardi città barocche e aranceti non sono che fronzoli trascurabili: l’aspetto di una aridità ondulante all’infinito, in groppe sopra groppe, sconfortate e irrazionali, delle quali la mente non poteva afferrare le linee principali, concepite in un momento delirante della creazione: un mare che si fosse a un tratto pietrificato nell’attimo in cui un cambiamento di vento avesse reso dementi le onde”.

A rinfocolare i ricordi di Monte Zimmara ci ha pensato l’altro giorno il mio amatissimo Pepe. Io gli avevo sempre detto che quel posto era quasi introvabile, perché dimenticato da Dio e dagli uomini. “Non saprei più come arrivarci”, sostenevo. “Non saprei più quali trazzere imboccare”. Ma lui, che traccheggia sempre col computer, ha digitato il nome e, con la velocità di una saetta, mi ha mandato la foto di Google Map con tutte le coordinate necessarie per raggiungere in quattro e quattr’otto quelle terre dove, immagino, non abiterà più nessuno.

Ma che ci andiamo a fare? Ne parleremo quando la vaccinazione sarà completata e tutti i lockdown si saranno allentati. Forse, per dirgli del mio amore infinito verso mio nonno, preferirò raccontargli l’unica impresa, eroica e straordinaria, che abbiamo fatto insieme. Una sera – avevo forse sei o sette anni – vide che tremavo dalla paura. Gli confessai che la maestra della scuola rurale ci aveva parlato dei fantasmi e che quel pensiero si era ingrottato, nefasto e serpigno, nella mia mente. Mi raccontò che lui invece, aveva incontrato banditi e briganti, altro che fantasmi; e che lui sapeva però come allontanarli: bastava andare di notte nel campo di fave, laggiù lungo il fiume, nel feudo della baronessa Li Destri; bastava camminare quatti quatti lungo i rovi che marcavano il confine, e il sortilegio avrebbe allontanato ogni anima nera. Una premessa ammaliante. Che, agli occhi di un bambino, favoleggiava già di un eroismo misero e gigante: quale piccolo Sancho Panza non avrebbe seguito, altero e mansueto, quel grande Don Chisciotte? Per quasi un’ora camminammo di notte in groppa a un mulo baio o forse morello, non ricordo bene. Me ne stavo aggrappato, con le mani e con le unghia, al suo scapolare verdastro. Mi veniva da piangere, ma il viaggio nella terra delle fave non prevedeva né lacrime né singhiozzi. Solo silenzio: perché il rumore avrebbe svegliato i cani e i campieri della baronessa. E così, agguattati e muti, ci inconigliammo nel campo delle fave. Delle fave verdi, quelle col baccello succoso e vellutato. Le cogliemmo a manate. “Mangia, ché i fantasmi se ne vanno”. “Anche i briganti?”. “Anche i briganti”. E appanzicati come non mai, tornammo a Monte Zimmara.

Ricordo che dopo quell’impresa gloriosa e ghibellina, mi addormentai serenamente, senza sussulti e senza paure. Mi rassicurava la memoria di un odore – l’odore dello scapolare verdastro – e di una avventura che, come nell’Ulysses, aveva incrostato di una “scorza salina” il volto di mio nonno. E me lo conservava giovane e bello come tutti gli eroi. Potrò mai raccontare una favola così – tenera e scellerata – a mio nipote, nato e cresciuto a Roma? Ma sì. La racconterò come ex voto per avere ricevuto la grazia del vaccino e di essere scampato al Covid.