Standing ovation, urla il maestro di cerimonie. E quello che era un affare dei soli arti superiori (braccia e mani), si trasforma in uno spesso stiracchiato, svogliato, costrittivo processo di biomeccanica di quelli inferiori. Tutti in piedi, a continuare l’applauso. L’incipit sarà forse spoetizzante, prosaico ma tant’è. Prima lo si faceva per personaggi carichi di onori, per nomi che avevano dato lustro alla storia del Paese, alla politica (nell’anno del Signore 2019 pare incredibile che qualcuno possa riuscire nell’intento specifico), all’arte, alla cultura, alla medicina, alla scienza, alla fiducia nel prossimo attraverso un atto eroico o semplicemente d’ordinaria (oramai straordinaria) umanità. Ché già era – e per fortuna è, visto che di persone belle e con senso del dovere e del sacrificio il mondo è tuttora popolato – una discreta pletora di gente.

Oggi la standing ovation («standing ovulation», scherzò una volta Lino Banfi quando il costume sembrava già pericolosamente prender piede) è un esercizio compulsivo e dunque retorico e svuotato di senso nella stragrande maggioranza dei casi in cui, in quell’ergersi, ci si offra al deferente omaggio. Carlo Conti, ieri sera in tv, ai David di Donatello, ne ha sollecitate diverse, qualche grande autore passato a miglior vita, un paio di celebri firme della celluloide, una carrellata di attrici a cui si doveva deferenza per autorevolezza d’età o per nazionalità estera transitanti su quel palcoscenico ma ha dovuto addirittura strigliare («ordina», Corriere on line scripsit) la platea di addetti ai lavori del cinema nostrano (avrebbe fatto meno fatica ci fosse stato almeno uno spettatore comune, oltre a registi, attori, scenografi, costumisti, direttori delle luci, montatori + parenti dal primo al quarto grado) per commemorare, pensate un po’, il ventennale dell’Oscar di Roberto Benigni davanti alle telecamere. La commemorazione di una celebrazione, iniziativa di cui non si ricorda traccia in occasione del precedente decennale e di cui probabilmente nessuno si prenderà la briga fra dieci anni, allo scoccar del trentennale.

Ma questo è il costume. Sanremo, ad esempio, il festival, due mesi fa, è stato pieno di standing ovation e fossero stati ancora l’onore alla memoria di questo o alla carriera di quello, si può capire: no, poco c’è mancato perché il pubblico fosse invitato ad alzarsi ad un fulmineo assolo del flauto traverso. Tutta la tv ne è comunque piena, giorno dopo giorno – una volta c’era «un bell’applauso», da qualche tempo c’è «standing ovation!» – essendosi trasformato il composto cerimoniale in un rito quotidiano di largo consumo e, nonostante l’euforia instillata dagli assistenti di studio, di quasi indolente passività, di popolare svaccatezza, due “standing” al prezzo di una: basta un ospite anche di piccolo cabotaggio e lo schizzar su è in agguato, il tripudio verticale garantito. Tutti in piedi, dunque. Così come ai vecchi tempi accadeva per un favore, oggi un’alzata di chiappe non si nega a nessuno.