Vedrete che alla fine i Bulli e i Balilla si ritroveranno tutti lì, felici e gaudenti, nelle dorate stanze di Palazzo d’Orleans. Pronti a riprendere le vecchie e consolidate abitudini, pronti a stringere nuovi patti con le lobby, pronti a traccheggiare con gli avventurieri, come Ezio Bigotti, che calano in Sicilia per rapinare risorse e trasferire il malloppo nei paradisi fiscali; pronti ad arruolare nuovi intermediari d’affari, pronti a sperperare altri milioni per eventi, come il Giro d’Italia o le sfilate alla Croisette, che non interessano a nessuno ma immettono tanti milioni in circuiti opachi dentro i quali non guarda nessuno: né le opposizioni, né i magistrati della procura, né le commissioni antimafia. Sì, torneranno. Nello Musumeci è uscito di scena nel peggiore dei modi: con livore e rancore. Ed è tornato nella sua Militello Val di Catania a raddrizzare gli ulivi, come un Cincinnato dei poveri, in attesa che i “Boia chi molla” vadano a prenderlo e lo riportino sugli scudi in un qualunque palazzo del potere. Ma loro – i Bulli e i Balilla – loro non cercano altri sbocchi: vogliono, fortissimamente vogliono, tornare dove hanno tenuto banco per quasi cinque anni.

Ci riusciranno. Ignazio La Russa – il senatore di Fratelli d’Italia che ha trattato con gli alleati del centrodestra sui futuri assetti della Regione – ha imposto, con urtante spocchia, la candidatura di Renato Schifani, una vecchia colonna di Forza Italia che è stato anche presidente del Senato ma non è certamente un trascinatore di folle. Gli azzurri di Sicilia, guidati da Gianfranco Micciché hanno accettato di malavoglia, ma Silvio Berlusconi – al quale Italo Calvino oggi dedicherebbe un nuovo libro: “Il Cavaliere inesistente” – non ha avuto né la forza né la voglia di contrastare il colonnello inviato da Giorgia Meloni a Villa Certosa. Con il risultato che la coalizione, e in particolare il partito di Forza Italia, si trova di fronte a un incubo: che possa ripetersi in Sicilia la maledizione di Roma, di Torino o di Verona. Città dove il centrodestra era, in maniera certa e sfrontata, maggioranza assoluta tra gli elettori ma la scelta infelice del candidato – basta ricordare Enrico Michetti a Roma: una macchietta della politica – ha sorprendentemente vanificato ogni sforzo e ogni rosea aspettativa.

Diciamolo: la candidatura di Schifani non è fortissima. L’ex presidente del Senato è tallonato da Cateno De Luca che sarà pure populista e fanfarone ma pesca consensi in terre che la vecchia politica ha abbandonato. Ed è schiacciato da un cumulo di spaccature, di contrasti e, soprattutto di legittimi risentimenti: a cominciare da quello di Stefania Prestigiacomo o di Raffaele Stancanelli, proposti e bruciati come candidati alla presidenza dalla urticante arroganza del callido La Russa. Ed è in questa debolezza che i Bulli e i Balilla del vecchio regime giocano la loro nuova partita. Si presenteranno per dare soccorso. Arriveranno dal centro di Renzi e Calenda, dove hanno trovato provvisoriamente rifugio e mimetizzazione. O arriveranno dal clan delle faccette nere catanesi: faccette violente, arroganti, spregiudicate. E Schifani, se mai sarà eletto, li accoglierà a braccia aperte. Perché sarà fragile. Perché dovrà fare i conti all’Ars con i numeri traballanti. Perché non avrà mai il coraggio di dire no a La Russa che lo ha scelto contro Miccichè e contro tutta quella parte di Forza Italia che da tempo lo aveva quasi dimenticato.

Domanda finale: c’è una regia in tutto questo “papocchio”, citazione da Repubblica? I retroscenisti, che per mestiere non rinunciano mai alla velleità di fare un nome, oscillano tra due ipotesi: Marcello Dell’Utri e Raffaele Lombardo. Chi vivrà vedrà.