Forza Italia dovrà decidere tra Schifani e Falcone, la Lega se assecondare la scalata di Luca Sammartino. Mentre gli unici partiti certi di avere un leader, in Sicilia, non esistono altrove (o quasi): sono il Movimento per l’Autonomia e la Democrazia Cristiana. L’avvicinamento alle prossime elezioni europee pone un problema di leadership: per prevedere l’esito del voto, infatti, bisogna capire chi farà le liste, quanti assessori saranno della partita, quali le alleanze. Oggi, a bocce ferme, l’unico affare sembra averlo fatto il Mpa: il partito di Raffaele Lombardo, rimasto al comando (nell’ombra) anche durante il lungo calvario giudiziario, ha chiuso un accordo con la Lega di Matteo Salvini.

Gli Autonomisti hanno una guida sicura e una collocazione quasi naturale. L’ex governatore vanta ottimi rapporti col Ministro leghista e gli garantirà di superare le doppia cifra, cosa che altrimenti sarebbe stata quasi impensabile. Quando hanno siglato il nuovo patto federativo (dopo la rottura alla vigilia delle Politiche del 2022), Lombardo ha subito messo le cose in chiaro – con tutti – spiegando che l’alleanza col Carroccio vale circa il 13,5%. Una rivendicazione in piena regola rispetto alle decisioni assunte da Schifani, e una sorta di ipoteca sul futuro della giunta (al momento gli autonomisti esprimono un solo assessore, peraltro bistrattato) qualora dalle urne, con vista Bruxelles, il listone Lega-Mpa dovesse risultare il più votato.

In questi mesi Lombardo ha scalfito il presidente della Regione toccando vari tasti: le pratiche clientelari di Palazzo d’Orleans, le difficoltà sulla nomina dei manager, lo scontro sui rifiuti (con la minaccia di depotenziare il prode Di Mauro). Si è differenziato sul piano dei temi e dei contenuti, ha messo in chiaro che un leader alternativo, nella coalizione di centrodestra, c’è già. Ed è lui. Può anche contare sull’appoggio incondizionato di Matteo Salvini, e questo non lo rende succube degli umori e dei rancori di Schifani. Un punto di partenza per ritagliarsi un peso specifico. L’unica situazione ancora ingarbugliata riguarda i rapporti col suo alter ego nella Lega, cioè quel Luca Sammartino che gode di consenso popolare e autonomia decisionale in seno al governo. E’ uno dei tre Magi di Schifani: con un portafoglio capace di accontentare molti (come dimostra il decreto da 44 milioni, appena emesso dal suo assessorato, per far fronte alle difficoltà degli agricoltori).

La supremazia nel governo, però, non si è ancora trasferita nel partito. Ma ci siamo quasi. Perché è chiaro: comanda chi ha i voti, e Sammartino all’ultimo giro ne ha collezionati oltre 20 mila, risentendo in minima parte del suo passato fra Pd e Italia Viva. Per poco non riusciva a imporre Valeria Sudano come sindaca di Catania, poi ha preferito desistere: per evitare lo scontro con Fratelli d’Italia e con lo stesso Lombardo (che li aveva definiti una “ditta”). Nella Lega esiste un segretario di fatto: si chiama Annalisa Tardino, ed è una volenterosa deputata europea in cerca di riconferma. Che Salvini ha scelto per cercare di sanare la frattura fra i leghisti della prima ora e le new entry catanesi. Ma per trainare la lista alle Europee, e far scattare il seggio alla licatese, non basteranno i suoi voti o le rassicurazioni di Lombardo (che ha promesso di non candidarsi). Sammartino dovrà mettere in azione le proprie truppe, ma per farlo serve una prospettiva convincente: potrebbe candidarsi lui stesso, o qualcuno a lui molto vicino. La competizione interna sarà necessaria, ma potrebbe rivelarsi lancinante. L’assessore all’Agricoltura, che gode anche del supporto dei trapanesi di Turano, è un leader che aspetta solo di uscire allo scoperto e farsi consegnare le chiavi (senza rinunciare al ruolo di vicegovernatore e assessore di punta).

Vanta peraltro ottimi rapporti con Cuffaro, cioè il rivale numero uno di Lombardo. Un personaggio il cui appeal, nonostante le vicende giudiziarie e gli anni di Rebibbia, non è mai venuto meno. Almeno per il popolo della Democrazia Cristiana, che si è riunito attorno al proprio “martire”. Cuffaro, reduce dal 6,5% alle regionali non un partito nuovo di zecca, sta provando a espandersi anche fuori. Per farlo ha bisogno di sostenere (malvolentieri) una battaglia legale per la proprietà del nome e i diritti sul simbolo della Dc, ma anche di trovare valide sponde che gli permettano di avere una vetrina per Bruxelles. Svanita quasi del tutto l’ipotesi di un’alleanza con Forza Italia – Caterina Chinnici ha convinto Tajani a bocciare la proposta – non gli resta che Matteo Renzi. L’ex governatore, con due assessori in giunta e un peso crescente, non è uno che non si dà per vinto. Dopo che gli amici di FI l’hanno tradito, ha rilanciato con la lista dei Liberi e Forti, poi si è trincerato in un silenzio che non sa di resa ma di strategia. In primavera potrebbe tirar fuori il coniglio dal cilindro, o aspetterà le prossime mosse per ricordare a tutti che, in Sicilia, per continuare a governare dovrà scendere a patti con lui. Anche se il suo nome, nonostante la riabilitazione da parte del Tribunale, non dovesse più comparire su una scheda elettorale.

Schifani, invece, dal giorno in cui ha fatto fuori Micciché, ha vissuto un declino progressivo. Doveva essere il “magnate” del post berlusconismo, invece ha dovuto ingoiare due bocconi amari: a Roma non è riuscito a farsi spazio, perché Tajani ha bloccato sul nascere la prospettiva di partito “aperto” e “inclusivo” preferendo rimanere nell’ombra della Meloni (e guadagnandosi tuttavia la nomination per diventare segretario); a Palermo, è andato in sofferenza di fronte alla scalata – decisa e ambiziosa – di Marco Falcone. L’arrembante assessore all’Economia, a novembre, ha organizzato un meeting a Taormina per lanciare la sua corsa a Bruxelles. C’erano tutti: da Tajani a Gasparri alla Chinnici (che si è palesata in auto col Ministro degli Esteri lanciando un segnale al governatore). E’ in quella occasione che Schifani ha perso il controllo sul metodo e sulle scelte. Gli è rimasto un cimelio da esibire (cioè Marcello Caruso, attuale commissario regionale di FI), ma non è riuscito ad acquisire alcun margine rispetto alle decisioni calate da Roma. Rimarrà alla finestra fino al prossimo congresso, quando spera di ritagliarsi un ruolo dirigenziale (magari come coordinatore per il Mezzogiorno). Ma la strada che sembrava spianata dalla presidenza della Regione, ottenuta fra l’altro grazia ai buoni uffici di La Russa, adesso è diventata una stradina. In salita.

Fratelli d’Italia, che sulla carta esibisce ancora due coordinatori regionali (Pogliese per la Sicilia orientale, Cannella per quella occidentale), è una società per azioni per il 99% in mano a Manlio Messina, attuale vicecapogruppo alla Camera. Che in un paio d’anni, grazie alla vicinanza di Meloni e Lollobrigida, è riuscito a scalare il partito contro le iniziali resistenze e al netto delle vergognose volgarità. Nessuno osa disturbarlo: anche il presidente dell’Ars Galvagno, figlio politico di La Russa, ormai lo asseconda. E Messina, imperturbabile, gode di prestigio e impunità anche presso Schifani: l’allievo Scarpinato, che non comunica quasi mai le proprie iniziative al presidente della Regione (vedi l’aumento dei ticket per l’ingresso ai musei), agisce indisturbato ai Beni culturali; la Amata studia le prossime mosse per infarcire il Turismo di nuove spese legate alla comunicazione. Fanno ciò che vogliono quando vogliono.

Lo scenario dell’opposizione, in tema di leader, è un attimo più fluida. Il Movimento 5 Stelle si è affidato alle cure di Nuccio Di Paola, abile a trattare con tutti come il maestro Giancarlo Cancelleri (il cui ricordo sembra consegnato alla storia); a seguire il Pd, da Roma dov’è impegnato come deputato, c’è ancora Anthony Barbagallo, che però sembra l’unico siciliano alla Camera ad aver capito come interpretare il ruolo di cerniera con la Sicilia, e a denunciare gli “scippi” di Meloni e il complice silenzio di Palazzo d’Orleans; infine c’è Cateno De Luca, che leader lo è per statura. Non solo del suo movimento politico, che è riuscito a far rappresentare addirittura nei palazzi romani. Ma di tutta l’opposizione, che non vede l’ora di affidarsi a lui e superare, una volta per tutti, la sindrome che l’affligge. Il primo tentativo potrebbe andare in scena sulle frequenze dell’Europarlamento (ce li vedete i deluchiani ospiti nelle liste di Pd o M5s?), che nel prossimo giugno offre un’occasione più unica che rara, ai tre partiti, per misurare il livello di coesione. E di stabilire se Scateno è davvero l’unica soluzione possibile per non vivere d’eterna irrilevanza.