Almeno, se a qualcuno scappa una parola in dialetto, lui capirà. Oltre a poterlo chiamare maestro – che non è poco in tempi in cui ai piani alti dei teatri di prosa e musicali sono spesso manager o tecnici tout court – Antonio Marcellino ha natali etnei anche se, come molti dei siciliani, meriti, riconoscimenti e fortune ha dovuto raccoglierli più altrove che in terra natìa. Adesso siede sulla poltrona di sovrintendente dell’Orchestra Sinfonica Siciliana e si spera sia un lavoro sereno dopo il tornado che ha spazzato per mesi quella Fondazione, dagli uffici al Politeama.

Colpa della politica, quella tempesta, o meglio, di una malapolitica che costringe il resto del mondo – cultura compresa che sembrerebbe così lontana da quel ginepraio e invece è un bocconcino ghiotto per nomine di sottogoverno – a ruotare intorno a sé. Quella siciliana, poi, è riuscita a piazzare solo personalità non isolane, di rispettabilissimi curricula, per carità, di belle esperienze sul campo e di lodevolissimi progetti pur basculanti tra concretezza e utopia («bambole, non c’è una lira», ripetevano gli impresari alle ballerine dell’avanspettacolo alla maniera in cui lo ripetono oggi con parole diverse gli assessori), e comunque per la maggior parte d’importazione.

L’unico “baluardo” autoctono è rimasto il palermitanissimo Francesco Giambrone al timone del Teatro Massimo del capoluogo (e per la seconda volta) che è comunque uno che le ossa se le è fatte soprattutto qui (anche nelle vesti di assessore alla Cultura, pure qui due volte), ha bella nomea nazionale ed europea non soltanto perché è uno studioso/critico/appassionato di teatro musicale ma pure perché riconosciuto grande esperto di management (lo insegna e ne ha scritto su libri) che è quella cosa che dovrebbe far combaciare il piacere dell’arte con il tintinnìo delle monete. E a chi lo vorrebbe liquidare come semplice espressione dell’«orlandismo» oppone giornate di alzate di sipario, numero di spettatori, libri contabili, visibilità internazionale del tempio della lirica panormita, cantanti, direttori e registi di calibro che vogliono lavorare a piazza Verdi, perfino le terrazze aperte ogni giorno per far godere ai turisti il panorama della Conca d’Oro. Certo, Giambrone è comunque più “sganciato” dal “ricatto locale” perché le Fondazioni liriche dipendono per gran parte da Roma che stringe o allenta, attraverso il ministero, i cordoni della borsa.

Ma il resto? Lungi da piagnistei provinciali, da autarchie gestionali, da sovranismi intellettuali, alla larga insomma da «prima i siciliani», si può dire che la cultura, in Sicilia, sia stata e continui ad essere oggetto di scambio, mercanzia da barattare proprio per bulimia della politica, che alla competenza sia preferita l’appartenenza, che la norma del “do ut des” tra i vari poteri sia stata la Magna Carta sulla quale concludere un “affare”. Al di là del profilo professionale dei singoli che talvolta sono solo pedine nella grande scacchiera delle convenienze di partiti e movimenti o singoli personaggi.

Dopo il pasticciaccio brutto di via Turati (con Giorgio Pace cacciato senza preavviso dalla sovrintendenza dell’Orchestra Sinfonica lo scorso dicembre) risolto l’altroieri dopo sei mesi, quello di via Roma, del Teatro Biondo, con la cacciata di Roberto Alajmo dalla guida dello Stabile, s’è risolto con l’arrivo della milanese d’adozione ma toscana di nascita Pamela Villoresi, nominata direttore artistico dopo una melina del Cda durata «solo» quattro mesi, contendenti non tanto quegli artisti (Villoresi compresa) che avevano avanzato la propria candidatura ma soprattutto Regione Siciliana e Comune di Palermo, ognuno con i suoi protégé.

Non diversa la situazione a Catania dove alla guida del Teatro Stabile, la più antica istituzione pubblica di prosa dell’Isola, dopo il dissesto economico delle precedenti gestioni, siede da un anno e mezzo una genovese doc quale Laura Sicignano mentre al Teatro Massimo Bellini, che è però un ente regionale, a far funzionare la macchina è stato chiamato dall’ex presidente Crocetta nel 2014 il romano Roberto Grossi: entrambi con curricula di peso e, specie nel caso del secondo, esperienze di gerenza pluriennali. Grossi però è in scadenza fra qualche giorno (primi di luglio) e bisogna a questo punto capire le forze (e gli interessi) che scenderanno in campo.

Non una traccia, non un’ombra però di un siciliano che non sia in secondo piano, che non si limiti che ad affiancare, segno che forse l’esperienza e il lavoro quotidiano delle nostre istituzioni culturali/teatrali non sono riusciti a forgiare personalità dirigenziali affidabili, non le hanno sapute coltivare o non ne hanno saputo riconoscere le qualità. O segno, probabilmente, che la politica, per togliersi dagli impicci di un universo così delicato e in fondo ad essa alieno, preferisce chiamare da fuori chi venga a togliere le castagne dal fuoco, ad approntare un cartellone, a gestire un’azienda culturale. Qualsiasi ospite, d’altronde. ha obblighi di riconoscenza e, si sa, spesso non occorre ripetergli due volte «per favore».