Da che mondo è mondo, gli assenti fanno sempre più notizia dei presenti. E il grande assente alla ‘prima’ di Renato Schifani, candidato del centrodestra a Palazzo d’Orleans, era il governatore uscente: Nello Musumeci. In sala, al Politeama di Palermo, non s’è visto. Ha mandato i suoi rappresentanti: l’aspirante presidente dell’Ars, Alessandro Aricò, e un papabile assessore: Giusy Savarino. Entrambi accomodati in seconda fila. La Savarino scatta una foto per postarla sui social e al centro della scena appare l’odiatissimo Gianfranco Miccichè, con quale Musumeci ha voluto evitare qualsiasi incontro pericoloso. Il nome del presidente della Regione dimissionario ogni tanto viene fuori: quando Schifani lo ringrazia per il passo di lato, quando Salvini lo cita, tra un intermezzo e l’altro, parlando di un “passaggio di consegne” che non è affatto naturale. Sono volati stracci. E la favella del centrodestra unito, che litiga “anche animatamente” e poi si ricompatta, non regge.

Sono troppo freschi i litigi nell’immaginario collettivo e l’assenza rumorosa e rancorosa di Musumeci, non fa che confermare la traccia. Di una coalizione che a due settimane dal voto non è riuscita a mandar giù i rospi, nonostante l’impegno dal palco, apparso un po’ goffo, di giustificare l’ingiustificabile. Tajani parla delle potenzialità inespresse in ambito turistico e qualche minuto dopo, sui social, Musumeci offre orgoglioso il suo punto di vista, utilizzando il dato sull’aeroporto di Catania, che nel 2021 ha veicolato più traffico di Fiumicino: “La Sicilia comincia a raccogliere i frutti di una campagna di promozione turistica che per anni ci ha impegnato in termini di risorse e di strategie. Ne siamo davvero orgogliosi”. Più risorse, che strategie. Il suo assessore al Turismo – un altro che al Politeama marca visita nonostante la presenza di Francesco Lollobrigida, suo padrino politico – di soldi ne ha spesi a palate, garantendo una presenza capillare dell’Isola in tv e alle stazioni dei treni (fino a Cannes), ma anche la sopravvivenza di lauti contratti con editori strapagati (pensate a Cairo e alle biciclette) e agenzie pubblicitarie venute dal Nord. La voce “stampa e comunicazione” è quella che ne ha beneficiato di più.

Musumeci, al teatro Politeama, avrebbe potuto parlare di questo. O spiegare, ad esempio, perché continua a tenersi in giunta l’assessore Armao, dopo la decisione di quest’ultimo di candidarsi per il Terzo Polo contro il centrodestra. O dopo gli errori contabili sul riaccertamento dei residui attivi da parte di quasi tutti i dipartimenti regionali, che hanno provocato code infinite per ventimila fra lavoratori, fornitori e imprese indietro coi pagamenti (Armao aveva promesso di sbloccare i pagamenti entro la fine di questa settimana, ma come al solito si è rivelato un flop). Sarebbe stato difficile sostenere le domande dei giornalisti sul tema dei rifiuti: con Salvini che continua a chiedere i termovalorizzatori (“Almeno due, almeno…”) e Musumeci che non è riuscito a portare avanti il bando nonostante il tentativo di accelerare negli ultimi mesi, in vista della campagna elettorale. Le pratiche sono rimaste nei cassetti dei burocrati. Il presidente, poi, avrebbe dovuto giustificare la diversità di vedute con Schifani sulla governance della commissione Via-Vas, quella che concede (o nega) le autorizzazioni ambientali: Musumeci ci ha messo a capo il prof. Aurelio Angelini, l’ex esponente dei Verdi (e tante altre cose) che il successore ha già espresso di non volere più.

Insomma, il governatore uscente avrebbe dovuto spiegare alla platea cosa c’entra lui con questo centrodestra che ha contribuito a distruggere – con anni di scontri, di veleni, di mancato dialogo, di umiliazioni ai partiti e al parlamento – a tal punto da correre il rischio di consegnare la Regione nelle mani di Cateno De Luca, in piena rimonta secondo gli ultimi sondaggi. Musumeci, invece, se n’è rimasto a casa perché non riesce ancora a governare il suo rancore. O a passare la borraccia a chi, cinque anni fa, gli consentì di appropriarsi del trono d’Orleans con la promessa di far durare il regno per lo spazio di una legislatura, e bòn.

Al Politeama non si è visto né lui né Razza (delicatissimo argomento la sanità). Chissenefrega della continuità amministrativa, delle buone maniere, del rispetto fra istituzioni. Meglio allenarsi per il Senato, dove un seggio scatterà comunque, e dove, per inciso, nessuno gli chiederà conto per cinque anni di esercizi provvisori, per il fallimento dell’ultima Finanziaria (che il Consiglio dei Ministri ha chiesto di impugnare per intero), per aver colonizzato l’Oasi di Troina con gli uomini e le donne di Diventerà Bellissima, per non aver scucito una parola sullo scandalo dell’Ente minerario (sventato in extremis dall’intervento di alcuni deputati, anche della maggioranza), o del giro di nomine tuttora in corso (il Corecom, l’Ast) nonostante il divieto imposto da una norma approvata dall’Assemblea lo scorso marzo.

E’ questa l’eredità, altro che la storiella della semina e del raccolto. Poi c’è il fattore umano. La pugnalata sulla ricandidatura (mancata) deve averlo lasciato senza fiato. I rapporti logori con molti big della coalizione di centrodestra – non solo Micciché – gli avranno consigliato di starsene alla larga. Se il centrodestra vince o perde non sono fatti suoi. Se dovesse perdere, poi, sarà tutta colpa di chi ha voluto la sua testa. Ieri Musumeci non c’era, anche se ha in programma di organizzare un altro evento, tutto catanese (giocare in casa è più facile e gli applausi fioccheranno), il 15 al Catania City Airport Hotel: “Il luogo più simbolico – scrive Mario Barresi su ‘La Sicilia’ – per chi, impallinato dal fuoco amico, ha in tasca il biglietto di prima classe meloniana per volare a Roma”. Aveva detto che non avrebbe barattato la presidenza con un seggio in parlamento. Che sarebbe tornato a fare il militante. Invece diventerà senatore, e forse a Palermo gli avrebbero chiesto conto e ragione anche di questo.