“O si fa il Pd o si muore”. Non vorremmo rievocare Garibaldi inutilmente, ma la situazione (forse) lo richiede: “Questo Pd, da solo, non lo risolleva neanche Mandrake. Se non scomparirà l’idea che si fa il partito perché ognuno faccia il proprio partito, scompariremo a breve”. Il richiamo all’unità, schietto e severo, è di Antonello Cracolici, deputato regionale “dem” ed ex assessore all’Agricoltura.

E’ una fase di profonda trasformazione nel tessuto democratico, anche a livello siciliano. La cronaca spicciola parla della fresca rinuncia di Fausto Raciti, che non ha voglia di correre per il secondo mandato da segretario (dopo essersi dimesso alla vigilia delle Politiche). Ma poi lo stesso Raciti dichiara di volere dar vita a un’associazione interna e trasversale rispetto al Pd, che funga da contenitore per le diverse esperienze: “E’ la conferma che articolarsi in correnti è più importante che provare a fare un partito comune – si agita Cracolici – In questo caso, addirittura, la corrente viene prima del partito. Credo che questo sia uno dei motivi della crisi del Pd, sia a livello nazionale che regionale. In Sicilia, più che altrove, siamo apparsi una somma di componenti interne, di gruppi e di gruppetti con una incapacità di offrire un progetto di società. Lo abbiamo pagato duramente durante l’esperienza di governo, e continuiamo a pagarlo anche adesso, non riuscendo ad avere un profilo da opposizione. E’ il limite più grande che avverto”.

Lei ha già dichiarato che la priorità non è eleggere un segretario, ma rianimare l’iniziativa politica. Come si fa senza una guida?

“Non dobbiamo ridurci a depandance del Pd romano. In questi anni il Pd è stato litigioso e autoreferenziale. Questo ci ha fatto perdere di vista la capacità di stare dentro una società sempre più complicata, in cui prevalgono i sentimenti di ostilità verso l’ordinario e un egoismo sociale sempre più caratterizzante. Qui c’è il rischio di eleggere un becchino, non un segretario. La politica non deve diventare un gioco di posizionamento di gruppi dirigenti. Che poi per essere “dirigente” serve qualcuno che ti segua”.

Il Pd ha perso il contatto con la base o riuscite ancora ad interloquire coi militanti di sinistra?

“Noi siamo ancora una forza importante in molti comuni, abbiamo numerosi amministratori, ma non riusciamo a darci una ragione per sentirci comunità. Questo è anche il frutto di errori gravissimi perpetrati in questi anni: il primo fra tutti, costruire il Pd fuori dal Pd. Un partito ha bisogno di punti di riferimento, deve avere una scala di valori, deve interpretare i bisogni. Questo lo si fa attraverso le persone e la loro capacità di stare nei territori. Invece, l’unica cosa che abbiamo fatto è stato costruire dei Pd che non coincidessero con quelli altrui: prima si è fatto il Megafono, poi Sicilia Futura, poi la Leopolda…”

A proposito: andrà all’appuntamento di Faraone del 5 e 6 ottobre?

“Io vado solo dove mi invitano. E dato che non l’hanno fatto nelle passate edizioni, non capisco perché dovrebbero farlo adesso. Io considero utile tutto ciò che si muove, solo se ha l’obiettivo di rimettere in pista una prospettiva politica. E non per alimentare parzialità in un inutile gioco degli specchi”.

E’ vero che Raciti e i partigiani stanno provando a spingere fuori lei, e altri “moderati” come Lupo e Faraone, dalla corsa per la segreteria del partito?

“Non capisco perché io sarei un moderato. Io vengo dalla sinistra, sono stato segretario dei Ds e capogruppo del Pd”.

Ma neanche un partigiano…

“I partigiani sono una cosa a cui mi rifaccio come identità valoriale, loro hanno combattuto i nazisti sulle montagne. Ma all’interno del Pd non abbiamo né fascisti, né nazisti. Una battaglia politica non è un fatto di resistenza. Non mi piacciono le categorie del passato. Oggi bisogna saper interpretare temi e alleanze”.

Ma esiste o no questa volontà di farvi fuori?

“Ho letto di incontri fatti da alcuni compagni, con i quali ho condiviso delle battaglie. Adesso stanno facendo un percorso diverso dal mio. Non so bene per fare cosa. Ma è legittimo che qualcosa si muova. A patto che questo movimento non resti solo ginnastica. E’ come uno che si allena bene, ma non sa quando si gioca la partita. Sembra che siamo diventati un partito in cui ci si allena a fare politica. Che non è quella dei tweet”.

Orfini ha detto che il Pd, così com’è ora, sarebbe più logico scioglierlo

“Il dibattito, così come l’ha posto Orfini, è solo un contributo alla confusione. Sarebbe più utile sciogliere le correnti. Ma in realtà non riusciamo a prendere il toro dalle corna, cioè non ci rendiamo conto che ci troviamo di fronte alla mutazione del sistema sociale in tutto l’occidente. Gli stati nazionali, intesi come luoghi in cui si tentava di fornire soluzioni ai problemi della gente, oggi non bastano più. E’ qui che nasce il sovranismo come meccanismo di difesa. In questo scenario, l’idea stessa di partito, fondato sulla fabbrica e sul lavoro, è messa a dura prova. Bisogna rivedere la funzione dei partiti e della sinistra. Bisogna chiederci a cosa serviamo, se non a rendere migliore la vita delle persone e dei nostri figli. Non possiamo dare una risposta soltanto ai diritti civili, ma anche a quelli sociali”.

La cena proposta da Calenda poteva essere un punto di partenza per garantirsi il rinnovamento?

“Ma quella è l’idea di un consiglio d’amministrazione, non di un partito. Calenda pensa a un partito dei capi piuttosto che a un partito-società. Che se metti i capi d’accordo, la società si mobilita. Ma non è più così. E’ un messaggio velleitario e sbagliato, anche a livello comunicativo. Ci vuole rispetto per chi milita nel Pd ed è disposto a battersi mettendoci la faccia. Io voglio ricostruire un partito “largo”, con una identità nuova, in cui riusciamo ad avere una funzione di rappresentanza per le fasce deboli e per quelle più giovani. Altrimenti siamo di fronte alla solita oligarchia di gruppi e gruppetti”.

Per questo ha scelto di appoggiare Zingaretti alla segreteria nazionale?

“Vedo in lui il tentativo quasi disperato di ricostruire una comunità, che vada oltre un incarico di governo. Che rimane lì, come un riferimento, anche se perdi le elezioni. Vede, secondo me il più grande errore del renzismo è stata far attecchire l’idea che il Pd fosse esclusivamente il luogo in cui ci stavano tutti quelli con l’ambizione di governare il Paese. Una sorta di partito del potere, delle élite. Ma un partito non può avere l’ambizione esclusiva di essere strumento di governo. In Zingaretti vedo il tentativo di costruire un fronte di speranza rispetto a questa deriva che è in atto nel nostro Paese. Dove c’è una forza di governo di destra che usa i problemi per cavalcarli e non per risolverli. E un Movimento 5 Stelle che ha una cultura debole, perché usa argomentazioni da bar e non riflette sul perché non sia stato possibile risolvere i problemi. Non perché chi veniva prima di loro era più scarso. Ma perché molti problemi sono complessi”.