Scaparro mi telefonò al giornale. Era il 1982. «Sono Maurizio, volevo invitarti a febbraio alla Biennale Teatro, quest’anno porto Napoli a Venezia». Gli risposi che, certo, mi sarebbe piaciuto ma dovevo accertarmi se il giornale fosse disposto a mandarmi. «Non ti preoccupare – rispose – sei ospite di una Settimana Internazionale della Giovane Critica Teatrale: arriverete un po’ da tutto il mondo, per l’Italia abbiamo scelto te e Oliviero Ponte di Pino (che allora scriveva per “il manifesto”)».

Avevo 25 anni. Il giornale diede l’ok con orgoglio misto a senso del risparmio (una settimana di cronache teatrali da Venezia a spese della Biennale non era da buttar via, allora: pensate in quali sgabuzzini cartacei è umiliato oggi il teatro sui quotidiani). Fu un’esperienza bellissima. Conoscevo Maurizio da alcuni anni, credo dai tempi del “Cyrano” con Pino Micol. E’ stato un grande regista, colto, profondo, sempre attento a come il passato, in un testo, potesse coniugarsi al presente e al tempo stesso lieve, ironico, utopista come era poi lui nella vita.

Maurizio è stato, tra gli artisti del teatro italiano, quello con il quale ho travalicato i confini che impone la professione (mai culo e camicia coi teatranti!), quello che è stato amico sul serio, tanto che mi veniva difficile pungerlo in una critica con la considerazione di qualche limite, eppure per onestà dovevo. L’amicizia si è ancor più cementata quando ha imbarcato Massimo sul suo fantasioso bastimento di idee. Quante passeggiate notturne, a Palermo, con Ranieri innamorato del ficus magnolioide di Villa Garibaldi e lui a parlare di progetti sempre nuovi, con lo sguardo perso verso l’alto, in un cielo dove le stelle vere si incrociavano sempre con le luci di un'”americana”. E noi due ad ascoltarlo, lo scugnizzo che mangiava cannoli anche alle due di notte mentre passavamo dalla tipografia, in via Lincoln, a ritirare il giornale appena uscito dalla rotativa.

Era un romano innamorato di tutti i Sud del mondo, Maurizio, e dunque anche di Napoli, di Palermo, della Sicilia tutta. Negli ultimi anni, brevi chiacchierate telefoniche Roma-Palermo. Non negli ultimissimi e mi resta un grande rimpianto per non aver ascoltato più quella sua voce affabulante, quella sua erre blesa, quei sogni, quelle chimere, quei miraggi che diventavano realtà solo su un palcoscenico ma che lui era convinto di poter trasbordare dalle assi di legno a questo mondo avaro di sogni, chimere, miraggi. Se penso al sorriso di Maurizio (e soprattutto a certe sottili perfidie che ci scambiavamo sugli altri, lui sempre con una misura in più di signorilità) stasera non ho quasi voglia di piangere per il suo addio. Voglio ricordarlo con lo sguardo di quel “giovane critico” che ripartì con gli occhi pieni di meraviglia da una Venezia carnevalesca trasformata 40 anni fa in Napoli, all’alba, sotto la neve, su un motoscafo che lo portava a Santa Lucia a prendere il treno. Il buio pesto della notte che non voleva farsi giorno e la Laguna tutta imbiancata. Ciao, maestro.

Tratto da Facebook