Il Coronavirus ha mandato in tilt la produzione e il mondo del lavoro. L’ultimo decreto del presidente del Consiglio dei Ministri, che sulla carta annunciava di fermare tutto, per alcuni si è rivelato un pannicello caldo. “Non capisco come profumi e cacciavite possano essere considerati beni di prima necessità” ha commentato il sindaco di Messina, Cateno De Luca, che alla sua città vorrebbe imporre il coprifuoco. Ma è uno scenario già visto: chi chiude avrebbe preferito non farlo per sopravvivere; chi resta aperto si sente vittima della logica dei figli e dei figliastri. Ma sul filo sottilissimo di uno scenario complesso e in evoluzione – che comunque mira a un fine ultimo: la salvaguardia della salute – si muovono numerosi interessi (tutti quanti legittimi). Perché prima o poi il Covid passerà, e a quel punto la realtà presenterà il conto.

Ad avere sempre meno certezze sono, ad esempio, i costruttori edili. Negli ultimi dieci anni, in Sicilia, si sono perse 5.700 imprese (410 nel 2019, secondo il rapporto economico di Confartigianato), per l’equivalente di circa 80 mila posti di lavoro. Un dramma. Ecco che a fronte del Virus, il presidente dell’Ance (l’associazione nazionale costruttori edili) Santo Cutrone ha chiesto alla Regione, alle amministrazioni locali e alle stazioni appaltanti dell’Isola di fare pressione sul governo nazionale affinché emani direttive più chiare in merito all’applicazione nei cantieri delle norme di sicurezza anti-contagio da Covid-19. Oppure decida di includere l’intero settore delle costruzioni, pubblico e privato, fra quelli che devono fermare le attività in base al Dcpm dello scorso 11 marzo.

Fermarsi, però, sarà possibile solo in cambio di precise garanzie: a tutte le imprese edili coinvolte sul territorio nazionale andrebbero estese la cassa integrazione e la sospensione degli adempimenti fiscali e contributivi finora vigenti per le sole “zone rosse”. “In Sicilia, soprattutto nelle aree extraurbane, ci sono già decine di cantieri fermi o che si stanno fermando – ha spiegato Cutrone – a causa di numerosi problemi. Ad esempio, le mascherine normalmente in dotazione alle ditte sono quelle anti-polvere modello FFP1, mentre, come tutti sanno, sono ovunque introvabili quelle per la protezione da agenti virali, modello FFP3, e i prodotti igienizzanti; risulta spesso impossibile garantire il trasporto degli operai nelle sedi extraurbane di cantiere con mezzi aziendali o a noleggio, nonché i servizi di mensa e alloggio, rispettando le distanze minime di sicurezza; ai posti di blocco accade che il personale diretto in cantiere venga respinto indietro; per ragioni analoghe o comunque legate all’impossibilità di rispettare le norme di sicurezza, imprese subappaltatrici e fornitori mancano agli appuntamenti programmati”.

Cutrone ha portato con sé degli esempi: “Un impianto di calcestruzzo a Campobello di Licata è stato chiuso da un’ordinanza sindacale; operai diretti ai cantieri sono stati respinti ad un posto di blocco lungo la Ragusa-Catania sostenendo che nel Van non possono viaggiare più di due persone; le forze dell’ordine hanno intimato la chiusura di due cantieri a Palermo e a Catenanuova ritenendo che non si tratti di attività essenziali, e a Scicli con la stessa interpretazione hanno fatto chiudere una falegnameria; alcuni sindaci hanno chiuso i magazzini di vendita al dettaglio di cemento, sabbia, malte e tondino di ferro; per non parlare dell’ordinanza con cui il sindaco di Messina ha autonomamente chiuso tutto, rendendo necessario un successivo intervento del prefetto per revocare l’atto. In questa situazione e senza norme chiare – osserva Cutrone – non è possibile lavorare. E oltre al danno la beffa: le stazioni appaltanti e i committenti privati, senza una previsione specifica di legge, imputano, anche economicamente, alle imprese i ritardi nell’esecuzione delle opere. E’ evidente che si tratta di una ingiustizia causata da un vuoto normativo, anche comprensibile in un momento di particolare emergenza. Ma è certo che ora va subito sanato”.

Anche i lavoratori dei call center devono adattarsi a una situazione d’emergenza. Ieri l’azienda Almaviva di Palermo – che negli ultimi mesi è stata interessata da una super vertenza – ha dato il via libera a forme di lavoro leggero, il cosiddetto smart working, con la sospensione di tutte le attività che non ne prevedono l’adozione. E’ la exit strategy da un vuoto normativo che il governo, nonostante i numerosi decreti, non è riuscito a colmare. “Il pieno rispetto delle regole è condizione indispensabile, ma oggi non basta – afferma Almaviva in una nota –. La cautela verso chi lavora deve essere assoluta, la prevenzione deve essere radicale, i call center a rischio zero. Di fronte all’emergenza più drammatica della nostra storia recente, chi ha responsabilità d’impresa deve assumere scelte nette, farsi parte della soluzione e, senza alcuna esitazione, contribuire ad azzerare i rischi della diffusione virale per spezzare la catena del contagio”. L’azienda comunque sottolinea che “sarà assicurato il presidio dei servizi di pubblica utilità, a partire dal numero verde 1500 per l’emergenza Covid-19” gestito sul territorio nazionale. Verranno adottate delle forme di lavoro a distanza in accordo con i numerosi committenti del gruppo. Restano appesi al filo dell’incertezza gli altri call center dell’Isola.

Un’altra categoria che rischia di soccombere è quella degli operatori dei mercati popolari. Ieri la polizia municipale ha smantellato le bancarelle esterne ai mercati di Ballarò e del Capo, cuore pulsante di Palermo. Concedendo di proseguire l’attività all’interno delle botteghe, come avviene per i supermercati. E in molte città siciliane, tramite apposite ordinanze da parte dei sindaci, i mercati sono stati chiusi per evitare assembramenti e occasioni di contagio. Nell’ordinanza di ieri, inoltre, il presidente della Regione Nello Musumeci ha incaricato i sindaci, a seguito di attenta verifica delle “condizioni di accessibilità” e della “possibilità di osservanza di tutte le misure precauzionali vigenti in materia di condizioni igienico-sanitarie”, di disporre “in ordine alla prosecuzione delle attività alimentari esercitate all’aperto con particolare riferimento ai mercati rionali”.

Ma a Ballarò e dintorni non ci sono soltanto i rivenditori di panelle e crocché. E in ogni caso, per questo popolo di “commercianti al dettaglio” e di lavoratori autonomi, che soluzione profila il governo nazionale? Che tipo di agevolazione o – meglio – intervento riparatorio è previsto a fronte di un blocco dei consumi per due settimane o un mese? Di certo non la cassa integrazione in deroga, come avviene per l’universo-mondo delle imprese. O l’integrazione salariale. O le ferie anticipate. Siamo al solito discorso: il popolo dei precari, che combatte ogni giorno per portare a casa piccoli guadagni, è nudo. Sono le vittime invisibili del Coronavirus, quelle di Serie B, che i sindacati non proteggono. Che rischiano di annegare nell’indifferenza. Ma immaginare Palermo senza Ballarò è francamente impossibile. Qualcuno si muova.

PUNTATA 1: LA CRISI DI EDICOLANTI, PARTITE IVA E OPERATORI DEL TURISMO