“Che fare?”, si chiese Lenin nel 1901. Probabilmente era una domanda retorica. Il futuro capo dei bolscevichi aveva idee chiare – per quel che vale, da me non condivise – e le mantenne per sedici anni con assoluta determinazione, fino alla presa del potere.

Ai dirigenti del Partito democratico, alcuni dei quali, per lontane filiazioni ideologiche, quel saggio potrebbero averlo letto, da tempo si pone la stessa domanda e finora non si ottiene alcuna risposta.

Si resta così in un terreno incerto, in una vaghezza politica ed identitaria che sta riducendo il consenso, come si coglie dai sondaggi.

Nel tempo hanno accroccato soluzioni diverse e spesso incoerenti che hanno garantito il galleggiamento, assicurato la partecipazione alla gestione del potere e la perpetuazione del quadro di comando. Nel turbinio dei segretari, il resto è rimasto immutato a Roma e, come suole dirsi spesso, nei territori, o forse meglio in quei luoghi separati e inaccessibili, dove di tanto in tanto si vedono e discutono di assetti ed equilibri.

Dopo la sconfitta elettorale, la risposta al “che fare?” è stata ancor più incerta e balbettante. Eppure non è possibile eluderla senza rischiare l’estinzione. La sollecitano, quella risposta, gli elettori, quanti vorrebbero mantenere e rianimare una forza politica essenziale, l’unica nel panorama nazionale che ha ancora la natura, la dimensione e una pratica, magari appannata, di partito, quelli che vorrebbero ritrovare un luogo dove portare i loro problemi, confrontarsi e indicare soluzioni.

So quanto sia difficile tirar fuori una risposta al “che fare?”, eppure ci provo in modo schematico e approssimativo.

Il Congresso della primavera prossima, tra cinque mesi, un tempo lunghissimo che sembra si tenda recentemente ad accorciare, può risolversi in una inutile parata, in un dibattito che resta lontano dai problemi reali del Paese, concludendosi con la scelta dell’ennesimo segretario e con la redistribuzione del potere interno alle correnti.

Non è agevole segnare una svolta, rimuovere quanti sono rimasti alla guida del Pd e, utilizzando una balorda legge elettorale, hanno perpetuato la loro presenza in Parlamento. E’ difficile, forse impossibile trovare nella storia un gruppo dirigente che consapevolmente abbandoni il potere con la convinzione di avere esaurito la propria funzione. Se non ci sono una forte mobilitazione, una spinta consistente, una richiesta precisa di rinnovamento, nessuno va via.

Eppure è questo uno degli snodi essenziali.

Poi, vi sono le scelte, innanzi tutto quella della identità, una questione che, a furia di richiamarla, rischia di diventare stucchevole.

In conseguenza di quella definizione, vi sono poi le alleanze, sulle quali da tempo c’è un confronto straniante e sempre più astratto. Il famoso “campo largo”, con ciò che si colloca a sinistra del Pd e con i Cinque stelle, non esiste più.

Non si può andare con chi non ti vuole come compagno di processione, con chi ha deciso di stare da solo dietro il Santo, con chi vuole percorrere una strada propria per incrociare tutte le proteste, le più contraddittorie, e confermarsi come forza populista, in grado di inseguire le convenienze senza alcuna remora di natura ideologica e senza vincoli di alleanze.

Il tempo della fase adolescenziale, dalla quale i Cinque stelle si sperava potessero uscire, appartiene al passato. Ora consapevolmente non vogliono rapporti che li leghino ad un progetto, a scelte definite, per tenere le mani libere, per costruire la propria forza sulla protesta, anche sbandando, dall’aumento delle spese militari, deciso ai tempi del primo governo Conte. Dal ripetuto consenso parlamentare all’invio di armi in Ucraina, allo pseudo pacifismo che li mette su posizioni analoghe a quelle di Salvini e di Berlusconi, altra cosa essendo i pacifisti veri, anche se talora paiono vittime di una lettura parziale di ciò che tragicamente sta avvenendo.

Sbandano, e non se ne fanno un problema, sui migranti bloccati a Catania, o forse restano coerenti con i decreti sicurezza concordati qualche anno addietro con la Lega.

Un ragionamento analogo vale per l’ipotesi di guardare dalle parti di Calenda e di Renzi, che coltivano un loro orto con qualche risultato, si dicono alternativi al Partito democratico, mirando a svuotarlo, per raccogliere parte del suo consenso e di quello dei berlusconiani.

E allora, “che fare”?

Intanto occorre che il Pd prenda atto della realtà, conduca in Parlamento e nel Paese una opposizione insieme alle forze alternative alla destra ma vada per conto proprio, imboccando una strada che si snoda lungo il deserto del potere e che può durare cinque anni. Non è più tempo di scorciatoie, di alleanze improprie che hanno consentito la presenza al governo, magari prescindendo dal voto popolare, ma hanno sfigurato il partito, lo hanno devitalizzato, gli hanno conferito l’immagine di una forza di potere facendogli dimenticare di raccogliere e interpretare i bisogni e il malessere dei ceti popolari.

Si deve andare per la propria strada senza tentennamenti. In Lombardia si è aperta una prospettiva allettante, la ghiotta occasione per strappare la Regione alla Lega e alla destra, che non sarebbe un risultato da nulla. A quella tentazione è stato giusto non cedere.

Non sarebbe stato opportuno e coerente puntare su Moratti, ottima candidata per competere e forse vincere, con una storia rispettabile ma tutta di destra, assolutamente disomogenea ad una forza di sinistra. Non si può cercare il successo elettorale a scapito della propria identità e della propria storia, compiendo operazioni di trasformismo che potrebbero dare nell’immediato un risultato, ma priverebbero il partito della credibilità e della prospettiva di forza alternativa alla destra.

Si vada all’opposizione a svolgere con determinazione, con autorevolezza, con un gruppo dirigente rinnovato, una funzione essenziale al corretto funzionamento della democrazia, con un potere diverso e forse più esaltante di quello che si esercita nelle stanze dei ministeri, che può consentire di tornare tra la gente, di riprendere il dialogo interrotto da tempo, di assumere un linguaggio comprensibile.

Da lì, da quella posizione, ci si rigeneri e si riparta.

E in Sicilia, “che fare”? A Roma la risposta stenta a venire o è flebile, qui non ci si pone neppure la domanda.

Se si prescinde da qualche timido eppure apprezzabile tentativo qua e là, a Palermo e ad Agrigento, il partito gode della più perfetta pace dell’anima. Non c’è più. I responsabili del duplice insuccesso elettorale – elezioni nazionali e regionali – e della irrilevanza che dura da anni, restano ostinatamente al loro posto. In silenzio e senza disturbare la destra che lentamente sta componendo i suoi equilibri interni per formare la giunta, assente la politica.

“Che fare?”…

Nulla.

Contro chi tace, scriveva Cervantes, non c’è castigo né risposta.

Varrà la pena tornare ad occuparsi del Pd in Sicilia?