Usciti dalla visita al nuovo Musée des Confluences, una meraviglia dell’architettura marocchina aperto meno di un anno fa in quella che fu la residenza di pacha Thami el Glaoui nella medina di Marrakech e che presenta una piccola selezione di arte giudaico-marocchina, islamica e africana collezionata lungo tutto il Novecento da Patti Pirch, honorable trustee del Moma di New York da poco scomparsa, ci interroghiamo a lungo sulla nouvelle vague multiculturale e, soprattutto, multireligiosa. Mentre l’Italia esplora la strada delle differenze con un accanimento che non vedevamo da settant’anni, e lo stesso Marocco si interroga sul brutale assassinio di due studentesse scandinave a opera di gruppi estremisti locali a una settantina di chilometri dalla città, ovunque nel mondo che si vuole attento all’evoluzione si lavora lungo il cammino opposto.

Alla Sapienza è stato appena inaugurata la prima cattedra di dialogo interreligioso, finanziata dal Bahrein, e si va formando il comitato scientifico interreligioso che ne farà parte. Duemila anni di guerre religiose ci hanno sfiancati: sopratutto, siamo stanchi di invocare Dio per mascherare interessi politici ed economici di tanti o anche di pochissimi. La religione, dalle nostra parti, non è nemmeno più argomento di richiamo: le vocazioni latitano, la Chiesa è sotto scacco per i troppi scandali, soprattutto di natura sessuale. L’amico che ci fa da guida per i cunicoli del centro storico, impossibili da decifrare altrimenti (una concezione medievale della città da “difendere” che ritroviamo anche a Venezia, per esempio), ci fa osservare che le tre grandi palle di rame digradanti, poste sul minareto della moschea de la Koutubia segnalano la base comune e l’unione profonda delle tre religioni monoteiste: quella più grande indica l’ebraismo, il libro della Torah da cui tutto nasce, quella media il Cattolicesimo e quella più alta l’Islam, che tutte le racchiude. Silenzio. Bella teoria, osserviamo. Lui annuisce. il dramma, come sempre, è la sua applicazione.