Si erano chiamati Moritat, non si capì bene se perché ispirati dal vocabolo tedesco (vuol dire ballata, una ballata popolare, a mo’ dei cantastorie, quasi sempre fatti di angiporti, bassifondi, malandrini, cronaca nera insomma, da cui cavare una morale) oppure perché quella più famosa era di Kurt Weill, Mackie Messer ricordate?, laddove la trasposizione jazzistica era entrata a gamba tesa con buona pace di Brecht e della sua «Opera da tre soldi». Alla fine degli anni Cinquanta suonavano in un locale di Amburgo, il Cafè Kase, arrivavano da Palermo, il chitarrista si chiamava Boris Vitrano che da ieri non è più, un altro pezzo della Palermo jazz che se ne va.

Vitrano era nato con il jazz in una città che di jazz si nutriva nei night e nelle “tavernette” che si immaginavano come delle “cave” parigine (erano ancora da venire i garage e i pub delle band), il repertorio andava dal classico dixieland a Nick La Rocca, Armstrong e dintorni. Era la Palermo dei Claudio Lo Cascio, Enzo Randisi, Gianni Cavallaro, dei fratelli Rondinella. Certo, il repertorio per molti gruppi doveva essere era “adattabile”: si faceva anche la musica leggera, c’erano le coppiette che volevano ballare i lenti nei locali oppure quelle che si scatenavano al ritmo del rock’n’roll. Tanto Vitrano era bravissimo alla chitarra e passava con disinvoltura da un genere all’altro nonostante il suo cuore veleggiasse tra New Orleans e il Cotton Club.

Il periodo tedesco è tra il ’59 e i primi anni ’60 in una Amburgo musicalmente prolifica, i Moritat suonano in quel locale abbastanza titolato e Vitrano amava ricordare quando con i suoi compagni di scena, andarono ad ascoltare, in una sera di libertà, quattro ragazzi capelloni di Liverpool che schitarravano quel genere nuovo chiamato beat, mischiato con un po’ di rock,  insomma non lo convinsero molto quelli che di lì a poco sarebbero diventati i Beatles (era lo stesso Star Club dove in quelle stagioni si esibivano anche due fratelli calabresi, i Reitano, Mino e Franco). Sembra che i Beatles non ancora famosi ricambiarono la visita andando ad ascoltare i Moritat al Cafè Kase.

Dopo il ritorno a Palermo, le esperienze più disparate da locale a locale, il jazz nel cuore, un po’ di rock e di Brasile (anche quest’ultimo assai amato), le immancabili canzoni per far quadrare i conti (aveva anche una bella voce, Vitrano, sebbene gli piacesse imitare più la raucedine di Armstrong che il velluto di Bruno Martino), non disdegnando i «riempi palco», in cui si faceva compagnia al pubblico (e lo si scaldava) in attesa della vedette della serata che di solito portava con sé i suoi musicisti. E nei molti anni a venire, questa voglia onnivora di far musica non l’aveva mai perduta, si era anzi mischiato con entusiasmo in gruppi di artisti più giovani e per le esperienze più disparate che sconfinavano nei repertori della ricerca popolare o del Sud America. Proprio a fine anno era tornato da un tour con una di queste formazioni, impegnato in un nuovo progetto. Quasi settant’anni di note su un palcoscenico. Perché, se il suo sogno originario lo portava sempre tra il Mississipi ed Harlem, il suo desiderio quotidiano era comunque quello di suonare, di mettersi la tracolla e cominciare a far scendere il pollice sulle sei corde.