Tra le risposte che vengono così, senza essere pensate, c’è quella tipo – “che ne so?” – il fratello assassino che uccide Abele si chiama Caino e Andrea Camilleri che parla per lui, ripete: “Sono forse io il custode di mio fratello?”.

Ecco, dunque, Autodifesa di Caino. Doveva essere spettacolo, con Camilleri autore e attore di se stesso e da oggi è libro presso Sellerio.

È il primo titolo postumo, è il copione – anzi, il canovaccio – di quella che doveva essere la messa in scena prevista per il 15 luglio scorso.

Un ritorno alle scene dopo lo straordinario successo di Conversazione su Tiresia al Teatro Greco Antico di Siracusa, quando – con Roberto Andò alla regia, con Valentina Alferj curatrice e con la produzione di Carlo Degli Esposti – nel giugno dello scorso anno Camilleri fabbrica l’evento unico. Una vetta di bellezza fatta di racconto.

Un appuntamento mancato, dunque, il Caino.

Col maestro che dopo un anno da Siracusa – dopo averci provato gusto a fare il “contastorie” da ultranovantenne, davanti al suo pubblico – si ammala per poi morire due giorni dopo la data fissata per il debutto alle Terme di Caracalla, a Roma. E c’è da immaginarselo, leggendo adesso il suo testo, per com’è lui sul palcoscenico. Tra le righe del copione, infatti, c’è l’ancor di più derivato dalla sua viva voce.

Si leggono le sue parole, appunto, e la sua stessa possanza, i suoi occhiali inerti e la sua coppola storta prendono forma.

In questo libro trova vita il suo bastone ed è ben più, quel legno, che un mero segnapagina. È l’asta da cuntista con cui Camilleri, autore e attore di se stesso, accompagna gli spettatori alla rappresentazione.

Eccolo: quadro dopo quadro, nel telone dipinto, Camilleri – erto sul Carro di Tespi – indica ogni scena.

Ed ecco, nell’accenno della voce come restituisce al pubblico lo sguardo fosco e la faccia torva di Caino.

Prestate attenzione, già nel nominare “Caino”, si sente lo stantuffo dello sputo.

Macchina teatrale per com’è, con questa sua seconda messa in opera, Camilleri torna al mestiere del raccontatore che ben volentieri va a soggetto. E ancor più ne elargisce di virtuosismi, Camilleri, quando un Caino – una specie di sottomarca di Satana, non certo un enigma tragico qual è Tiresia – di tutti i pupi spersi tra le pupiate è pur sempre il primo tra gli omicidi. Uccide il prossimo come se stesso; ma anche, col mondo che ci fa facilmente il callo rispetto ad assassini di ogni risma, Caino è attesa del peggio a compiersi.

È dunque empietà, Caino – la sua sordida voglia di affondare nelle carni di Eva, sua madre… – e comunque il seme che l’ha generato non è propriamente quello di Adamo ma del bellissimo Serpente: quello che con la mela offre alla donna anche l’irresistibile agguato tra le natiche per fecondarne – col sangue, nel Peccato originale – la radice del Male.

Lo stesso assalto che dopo, l’Arcangelo Stefano, adopera su Eva ormai scacciata dall’Eden.

Mosso a commozione, l’angelo porge una cesta di frutta alla genitrice dell’umanità mentre quella, intanto – nuda, coperta da una sola foglia, giusto sulla natura – fa mostra del suo posteriore e la celeste creatura giustamente non ci vede più. Se la prende per i fianchi, la tiene a sé e nasce un altro bimbo: l’innocente Abele, radice del Bene.

Caino – puh!, torna lo sputo – è l’alterità insita nell’uomo. “Meritatamente uccise Abel suo fratello”, sentenzia dal rogo Giordano Bruno, “perché era un tristo carnefice d’animali”. Il tristo monaco – la testimonianza è raccolta da Camilleri – difende l’assassino. Anche Jorge Luis Borges ne trasfigura l’incubo descrivendo i due fratelli in un conciliabolo tutto di perdono. Nessuno tocchi Caino – manco a dirlo – ma sua è la Città del Male mentre la Città di Dio è quella di Abele sicché l’appetitosa verdura della felicità, per gli umani, non può avere altra pioggia che la redenzione celeste.

Una storia, questa di Caino, come mai si poteva immaginarne un’epica. È la sua autodifesa – le sue ragioni espresse innanzi al pubblico, come davanti a una corte giudicante – che ricalca, nella pratica teatrale, l’Apologia di Socrate.

Ogni cicuta ha una doppia valenza. Le radici religiose del capitalismo sono risolte in un solo nome, Caino, lo spiega – con Max Weber, Camilleri. E “inventore della vostra civiltà, la civiltà dell’uomo”, è Caino.

La Scrittura biblica – cui riferisce il racconto del fratricida – non porta in dote la tragicità d’Ellade, la potenza ctonia e aurorale dei titani, o la pietas di Zeus Padre e ci voleva il bastone del cuntista Camilleri a raccontare il fatto per come fu: intanto il primo uomo della storia non è Adamo. A precederlo ce ne sono ben undici, di suoi simili, sono nanetti da giardino – l’Eden – che Dio crea dal nulla per poi farli vivi con un sospiro, ma per assecondare il suo lato borghese, per decorare la Creazione. E la prima donna non è Eva, bensì Lilith, avvenente e maliziosa assai, desiderosa di cavalcare il maschio nell’amplesso e far al contrario, invece, mai: “Non mi faccio mettere sotto”, ringhia, pur seducente ma ad Adamo – cavalcato, subito dimenticato – tocca l’altra scelta.

E comunque sì, si sa: “Non sempre dal bene nasce altro bene e non sempre il male genera altro male”.