Dire, come ha detto Giuseppe Conte, “abbiamo un occhio di attenzione per i nostri artisti che ci fanno tanto divertire e appassionare” è peggio che una gaffe, è provincialismo.

Quella del presidente del Consiglio è una precisa idea della produzione artistica: un passatempo e nulla più. Conte, insomma, tanto si appassiona dell’arte da mettere tra parentesi un mondo fatto di famiglie che trovano il pane grazie al lavoro di fonici, elettricisti, artigiani, impiegati e precari. Sono gli anonimi lavoratori che al botteghino consegnano solo la speranza di raggranellare merda, tanta e tantissima merda* e così campare grazie al sipario.

Dire, degli artisti, “ci fanno divertire” equivale al “cantami una canzone” ­o, “raccontami una barzelletta”, con cui i partecipanti a un rinfresco, riconoscendo un cantante o un attore, lo chiamano a esibirsi su due piedi. Corrisponde alla convinzione che la qualità speciale di un maestro del palcoscenico sia – più o meno – quella di un rubinetto o quella di juke-box, senza l’incomodo del gettone.

Il prezzo della fama, si dirà. Al prezzo della fame, però. Alla costruzione dei famosi partecipano i soldati del “dietro le quinte” e se certi deficit di stile propri della gentuzza ordinaria vanno a replicarsi nelle istituzioni è il segnale di un ritardo culturale dell’intera società italiana.

Le star che in tempo di pandemia si sono prodigate in intrattenimento da remoto pur di piegarsi, per dirla col professor Gervasoni, al pandemicamente corretto, hanno assecondato l’idea di cantare una canzone e dire una barzelletta su due piedi.

L’Italia è uno strano posto dove gli artisti giammai sono ribelli, anzi, sono sempre solleciti verso lo status quo. Questa è una storia vecchia, il rassicurante perbenismo ha intossicato tutte le muse ma il prontarsi di molti vip – su due piedi, via skype – è significato altro: con la schifezza in termini di resa artistica via web si sono messi sotto le scarpe tutte le figure necessarie alla costruzione di un “fatto” artistico.

La precisa idea del presidente del Consiglio – lo spettacolo come passatempo – è stata consolidata da tutti loro. Presi dalla smania etica, ben pasciuti nei loro lussuosi appartamenti, sorvolano su quel divertimento che è, innanzitutto, un costrutto di economia e industria. Un teatro che può aprire subito, anche stamattina, è il Teatro Greco di Siracusa. Sta all’aperto, con tutte le possibilità di distanza che si vogliano per pubblico e attori. Ed è una vera e propria Fiat, quel teatro di Eschilo, Sofocle ed Euripide, per tutti i bei piccioli che genera. La prima cosa che Mosca fa, sorgendo dal crollo dell’Urss – lo ricordate? – è riprendersi il Bolshoi.

Genio e sregolatezza camminano sulle gambe dell’artigianato. Lo spettacolo – soprattutto la messa in scena dal “vivo” – è bene di prima necessità anche oltre lo stesso indotto. Dove c’è una compagnia teatrale, dove cresce un’orchestra, laddove un paese si dà un sipario erge un riparo alle formichine operose d’ingegno.

La vera smania, invece che cinguettare delazioni agli smascherati, deve essere estetica perché con la cultura s’imbottisce davvero il panino. Ogni pagina di Shakespeare riguarda falegnami, costumisti, traduttori e dunque stampanti, pieni di benzina, B&B, posizionamento luci, cavi, specchi, cipria e – appunto – panini. In ciascuna di quelle pagine c’è la viva merda.

*nel gergo teatrale merda significa pubblico, dunque soldi, quindi pane (anzi, panini).