“Spero di poterti incontrare da uomo libero e stringerti la mano”. E’ un passo, l’unico che mi permetto di citare, della risposta di Chico Forti alla mia prima lettera. Era il novembre 2013, e per Chico – professione surfista e autore televisivo – erano già trascorsi quasi quattordici anni di dura prigionia. Nel 2000 fu condannato all’ergastolo per una semplice “sensazione”. La giuria popolare non riteneva che fosse l’autore del delitto di Dale Pike, un ragazzo australiano, figlio di un socio in affari (Anthony) con cui i rapporti si erano deteriorati; bensì il mandante di un’esecuzione che sarebbe avvenuta poche ore dopo un incontro fra i due all’aeroporto di Miami, dove Chico era andato a recuperare il figlio del suo amico. Ma non ne aveva la certezza, tanto meno le prove.

Al di là della cronaca, che alcune trasmissioni tv (l’ultimo lavoro del collega Gaston Zama, delle Iene, è un’opera da incorniciare per dettagli e testimonianze) hanno ripercorso in maniera puntuale, e dei palesi errori giudiziari, facili da riconoscere anche per un non-addetto ai lavori, la vicenda umana di Chico Forti, e il suo ritorno in Italia, suscitano un afflato di benevolenza e carità che a un uomo neanche si dovrebbero. Perché un uomo come Chico non sarebbe dovuto rimanere da solo così a lungo, dimenticato dal proprio Paese, ignorato e ripudiato da una giustizia – quella americana – che è riuscita a condannarlo all’ergastolo ma non alla rassegnazione. E non si può non provare empatia per un “eroe” dei nostri giorni, capace di resistere a vent’anni di carcere lontano da casa, a un cuore trafitto e a una famiglia dispersa per il mondo (i figli e l’ex moglie vivono alle Hawaii).

Chico ha perso tutto: la libertà, gli affetti, la speranza in un domani migliore. Forti è stato fatto sprofondare nella sofferenza e nel silenzio, ripudiato da un sistema che l’ha fatto a pezzi e che tantissime volte ha detto ‘no’ alla richiesta di revisione del processo. Un sistema che avrebbe fiaccato anche un toro. E poi ci sarebbero le responsabilità dello Stato italiano, che per vent’anni s’è dimenticato di un suo figlio, l’ha lasciato marcire dentro quattro mura, dove Chico ha insegnato agli altri. Ha lavorato. Ha letto ogni singola lettera e ha risposto a tutti. Me compreso.

Oggi Chico è ancora in piedi, più stanco, ma ancora in piedi. E sembra quasi un miracolo. Ciò che andrebbe urlato al mondo nel giorno del Natale è che ci sono uomini capaci di resistere a un interruttore spento per vent’anni. Che remano controvento e non si arrendono. Che tirano fuori il meglio quando tutto sembra destinato alla deriva. Forti ha subito umiliazioni, tradimenti, indifferenza. E pure è qui, ad esultare per una storia che non ha ancora visto la parola fine. Per un semplice traguardo intermedio che nelle prossime settimane, coi tempi della burocrazia, lo vedrà tornare in Italia. In carcere, va da sé.

Chico non si è mai dichiarato colpevole (l’unico modo per chiedere la grazia) perché si è sempre ritenuto innocente. Avendo usufruito della convenzione di Strasburgo, espierà in Italia la sua presunta colpa, nella speranza che il presidente della Repubblica possa commutargli la pena. Per dare a Chico la forza di riabbracciare la mamma 92enne, e affrontare gli anni che gli rimangono con l’orgoglio che merita. Con il rispetto che gli si deve. Con l’amore che tutta Italia gli ha dimostrato. Senza nemmeno rendersi conto che Chico Forti non è ancora un uomo libero. Ma con la speranza, sempre legittima, che un giorno possa diventarlo.