L’ultima sentenza emessa dai giudici d’appello della Corte dei Conti di Palermo, relativamente alla condanna degli ex presidenti Raffaele Lombardo e Rosario Crocetta, ha stabilito che “le retribuzioni corrisposte alla dott.ssa Monterosso, illegittimamente nominata, costituiscono danno erariale poiché erogate sine causa” cioè “in violazione di una specifica normativa che sottopone il conferimento di incarichi dirigenziali a personale esterno alla condizione imprescindibile che l’amministrazione conferente abbia verificato, concretamente e seriamente, la mancanza di personale interno idoneo a ricoprire l’incarico”.

Gli ex governatori – uno nel 2012, l’altro nel 2016 – non avrebbero fatto le opportune verifiche per capire, come richiede il decreto legislativo 165 del 2001, se qualcuno dei dirigenti interni all’Amministrazione, più della Monterosso, avrebbe potuto ricoprire il ruolo di segretario generale della Regione siciliana. Cioè la carica amministrativa più alta. Che invece la Monterosso, oggi direttrice della Fondazione Federico II, ottenne in qualità di “esterna”. Oltre all’illegittimità della nomina, già ribadita nel primo grado di giudizio, è il danno erariale (anche se Lombardo, Crocetta e 12 ex assessori se la caveranno col pagamento di circa 300 mila euro) il fulcro di questa sentenza. La logica conseguenza di un malcostume che si trascina da anni. Che di rado viene intercettato e punito dagli organi giudicanti (la magistratura contabile in questo caso). Ma che nei corridoi di palazzo d’Orleans e dei vari assessorati, dove si stabilisce il risiko delle nomine, non ha mai fatto scuola.

Chi sarebbe dovuto andare al posto della Monterosso? Dalla sentenza emerge che la segreteria di Crocetta, nel 2016, scandagliò in lungo e in largo l’organico della Regione: ma non c’erano dirigenti di prima fascia, i più titolati; bensì “venti dirigenti di seconda fascia”, nessuno dei quali però in possesso di tutti i requisiti richiesti. La stessa Corte dei Conti, nella sentenza dell’altro ieri, ha rigettato il motivo d’appello della procura regionale “con il quale è stato sostenuto che tra il personale interno scrutinabile per l’incarico di segretario generale dovessero essere ricompresi i dirigenti di terza fascia e i dipendenti appartenenti alla categoria D”. Finendo per richiamare un altro aspetto grottesco di questa vicenda infinita. I dirigenti di terza fascia li conosciamo bene: sono le mosche bianche della Regione, una platea enorme che da anni, grazie alla magnanimità della politica, all’assenza di una riforma della dirigenza e all’esaurimento delle altre due fasce (la prima e la seconda), vengono “elevati” al massimo grado. A capi dipartimento. Se la procura della Corte dei Conti, basandosi su una giurisprudenza ormai sconfinata, aprisse i cassetti di ogni singola nomina operata da Musumeci e dai suoi predecessori, coi proventi del danno all’erario potremmo sfamarci alcune tribù dell’Africa.

L’ultimo episodio è dello scorso giugno, quando la Corte d’Appello di Palermo (sezione Lavoro) ha bocciato il ricorso presentato dall’Amministrazione regionale avverso la sentenza di primo grado pronunciata dal Tribunale del Lavoro nella causa intentata da Alberto Pulizzi, dirigente di seconda fascia, contro la nomina di due dirigenti di terza (Fulvio Bellomo e Vincenzo Palizzolo) nelle posizioni di dirigenti generali al Dipartimento Infrastrutture. In primo grado, la giudice aveva stabilito che l’incarico in questione poteva essere conferito solo in favore dei dirigenti di prima e seconda fascia (come previsto dalla legislazione nazionale), e non di “terza”, come avviene puntualmente in Sicilia. Un concetto ribadito anche in Appello. La Regione siciliana, per la sua “insistenza”, è stata condannata a pagare le spese di lite per 3.300 euro.

La maggior parte dei dirigenti generali sono degli “interni”. Pochissime le eccezioni: Federico Lasco, responsabile della Programmazione; e, di recente, Francesco Bevere, che ha preso il posto della Di Liberti al Dasoe, il dipartimento Attività sanitarie e osservatorio epidemiologico. Tutti gli altri sono di terza fascia. La prima si esaurita, la seconda quasi. Così, per non lasciare scoperte le posizioni apicali, si ricorre puntualmente a delle forzature che non sorprendono più nessuno. Al contrario, sono entrate nell’uso e nel costume della politica. Che fra l’altro non indice concorsi. Nomina e basta. Nella sentenza di primo grado della vicenda Monterosso, la Corte dei Conti, citando un’altra sentenza del Tar Sicilia (anno 2014) riferisce che “l’incarico di dirigente generale non può essere attribuito ai dirigenti di terza fascia”. “In buona sostanza – spiegano i magistrati contabili – secondo l’articolo 11, comma 4 e 5 della legge regionale n.20 del 2003, l’incarico apicale “è conferito” a dirigenti di prima fascia, nonché a soggetti cd. “esterni” (entro il più elevato limite del 30 per cento, introdotto dal comma 7 dello stesso articolo) e “può essere, altresì, conferito” a dirigenti di seconda fascia in possesso dei requisiti ivi previsti”.

Per farla breve, a capo di un dipartimento – il ruolo più alto e meglio retribuito della pianta organica – possono andare i dirigenti di prima fascia, seguendo una procedura di conferimento ordinaria, o in alternativa dirigenti di seconda fascia o “esterni”, secondo un modello di selezione straordinaria. La Corte dei Conti stabilisce, inoltre, che “le predette modalità di conferimento dell’incarico apicale non sono, tuttavia, collocate sullo stesso piano, nel senso che l’autorità affidante (nel caso di specie “il Presidente della Regione, previa delibera della giunta regionale, su proposta dell’assessore competente”) può instradare il procedimento decisionale nel corridoio che conduce alla nomina di soggetti cd. “esterni” solo a valle di un motivato accertamento dell’insussistenza, all’interno dell’amministrazione, di professionalità adatte allo scopo”. Ma qualcuno ha mai controllato sulle procedure di selezione? Forse non ce n’era bisogno, dato che l’impianto è traballante dalle fondamenta e qualsiasi bastoncino rimosso male – come avviene a Shanghai – sarebbe stato utile a farlo crollare.

Il comportamento reiterato dei governi negli ultimi vent’anni – da quando esiste, cioè, la dirigenza di “terza fascia” – avrebbe potuto esporre (o espone tuttora) la Regione siciliana a rischi enormi sotto il profilo contabile. In mancanza di una proposta di legge che regoli l’accesso alle posizioni apicali – più volte richiesta dal parlamentare regionale del Pd, on. Nello Dipasquale – o di una serie di concorsi interni per consentire ai “terza fascia” di aspirare al vertice dei dipartimenti, i presidenti si sono comportati tutti allo stesso modo: cioè, hanno chiuso un occhio. Sulla vicenda, in un arco temporale ormai lunghissimo, si erano già pronunciati il Commissario dello Stato e la Corte Costituzionale (che aveva dichiarato “cessata la materia del contendere”), ma anche il Tar Sicilia e il Giudice del Lavoro di Palermo. Inoltre, gli ultimi pareri richiesti dalla Regione – al Cga e all’Aran – erano tornati indietro perché irricevibili. Anche alla vigilia dell’ultima infornata di nomine, a giugno 2020, c’erano tutti gli strumenti per fermarsi un attimo a riflettere. Invece niente. Poi, ogni tanto, dall’asfalto sbuca fuori una primula – come nel caso della condanna di Lombardo e Crocetta – e la questione torna d’attualità.

A renderla tale, in effetti, ci ha pensato anche l’accordo Stato-Regione dello scorso gennaio (tuttora, però, inapplicato). Quello che è servito a Musumeci e Armao per rateizzare in dieci anni, anziché in tre, l’enorme disavanzo. Fra le condizioni poste da Roma, l’adeguamento alle norme sulla dirigenza pubblica, con l’impegno di “eliminare le distinzioni tra la prima e la seconda fascia dei dirigenti di ruolo, superare la terza fascia dirigenziale avente natura transitoria con l’inquadramento nell’istituenda unica fascia dirigenziale, agli esiti di una procedura selettiva per titoli ed esami (…) con espresso divieto a regime di inquadramenti automatici o per mezzo di concorsi riservati per l’accesso alla dirigenza”. Insomma, bisognerà sconfessare vent’anni di pasticci più o meno autorizzati. Ma i soldi di questi sperperi, e di tanti altri che si sono consumati sulle spalle dei siciliani, torneranno mai indietro? E qualcuno di questi giudici integerrimi, pretenderà che accada?