Padri nobili o nobili decaduti e rompiscatole? Ecco il dilemma. Forse mai come oggi, con il vecchio Umberto Bossi che rimprovera il giovane Matteo Salvini e con il giovane Matteo Salvini che risponde stizzito al vecchio Umberto Bossi, ritorna attuale quella massima di La Rochefoucauld che recita così: “I vecchi ci danno dei buoni consigli per il dispetto di non poterci più dare dei cattivi esempi”. Umberto pensa che Matteo non sia adatto a fare il segretario della Lega e che vada sostituito. La sua disapprovazione, che prima s’esprimeva con lo scuotere del capo, con un pallido sorriso rassegnato, adesso viene espressa senza mezzi termini. Eppure non sortisce alcun effetto. Apparentemente, almeno. Delle parole di Bossi non si parla seriamente nella Lega, un novecentesco dibattito non si apre, proprio come in realtà nel centrosinistra non viene ascoltato, per esempio, Romano Prodi. Nemmeno quando rimprovera a Elly Schlein di essere poco seria quando coltiva l’intenzione di candidarsi alle elezioni europee. Sarà il leaderismo sfrenato, saranno le biografie dei padri a non essere poi forse così nobili, ma resta un fatto più che evidente: il vecchio saggio, il re del tempo che fu, ascoltato e riverito, è una specie in estinzione.

Tanto a destra quanto a sinistra. Bossi, Prodi, ma anche Massimo D’Alema, Gianfranco Fini e persino Beppe Grillo non soltanto non sono ascoltati, ma sono persino respinti dai loro figli politici e putativi, che oggi si chiamano Schlein, Meloni, Salvini e Conte. Tutte persone il cui successo è frutto dell’impegno, non del lascito e del cognome. Tutte figure, benché assai diverse tra loro, che si sono mosse con l’aria inquieta e affamata del lupo, strappando con fatica la toga di leader. Non come si prende il dono di un padre, ma come si scippa un tozzo di pane a un estraneo. Meloni ha rifondato la destra precipitata a Montecarlo. Salvini ha salvato la Lega mineralizzata dai diamanti in Tanzania. Conte ha trasformato una banda di analfabeti della democrazia diretta in una forza di governo. E Schlein, infine, si è imposta con un movimentismo estraneo alla tradizione del partito eterno della sinistra. Gianfranco Fini aveva Giorgio Almirante, come Massimo D’Alema aveva un comitato centrale di saggi e padri nobili, viventi, che andava da Alfredo Reichlin a Emanuele Macaluso fino a Giorgio Napolitano. Al contrario Giorgia Meloni non ha Fini accanto a sé. Anzi. Come tutti sanno, un mite rancore, un bofonchiamento affiora qua e là ogni volta che la presidente del Consiglio sente parlare in tv o legge un’intervista dell’ex leader di Alleanza nazionale sui giornali: una stizza neppure tanto nascosta. La stessa che Salvini riserva, non da oggi, a Bossi malgrado i due si assomiglino moltissimo per quell’elastica mancanza di scrupoli e per quel riconosciuto talento per i giochi di mano politici che è quasi la firma biologica di un rapporto di diretta filiazione trasformatosi forse, oggi, in reciproca ostilità. Si può essere delfini di un pescecane? Chissà. Resta il fatto che i due nemmeno si parlano. Continua su ilfoglio.it