Le facce sono serie, compunte, tristi anche se le papille gustative secernono acquolina in attesa del primo morso. Con un cenno del capo Montalbano dice che sì, che si può dare il via a quella cerimonia commemorativo-glicemica e nel commissariato di Vigata va in scena la silenziosa degustazione di cannoli, la più solenne che la storia della fiction televisiva (ma forse la storia in genere) conosca. Occasione dolciaria per ricordare il medico legale della serie camilleriana che dopo vent’anni è ormai così strettamente connessa tra letteratura e tv, personaggi e attori, realtà e fantasia che i morti sono veri e finti, fittizi e reali. E se Marcello Perracchio – l’attore modicano che aveva legato i suoi anni maturi alla figura del medico legale Pasquano, cui il commissario Zingaretti rompeva di continuo i «cabbasisi» coi suoi morti ammazzati, gran mangiatore di cannoli – è passato a miglior vita due anni fa, nella serie tv hanno fatto morire anche il personaggio (che fino alla settimana e alla storia precedenti era stato dato “forse” in vacanza con la moglie). Stavolta, niente: funerali, condiglianze e…cannoli.

Cannoli, dunque, “i cannoli di Montalbano” che potrebbero ispirare ancora una volta l’Empedoclino se avesse ancora l’uzzo a scrivere del suo commissario che s’è dunque fermato, letterariamente parlando, agli “arancini”.

Come i cannoli di Cuffaro, quella foto che dieci anni fa diventò un’icona, un simbolo, la rappresentazione figurativa più fortemente interpretata del potere dell’ex presidente della Regione – appena condannato in primo grado ma senza l’aggravante mafiosa, quella volta, e in procinto di dimettersi – che si trovò a spostare il consueto vassoio che quasi ogni mattina il suo amico gestore del Motel San Pietro – frequentatissimo punto di ristoro sulla Agrigento-Palermo – faceva arrivare sui tavoli dell’Ars. «Cuffaro festeggia la sua condanna offrendo cannoli». Come se in quell’involucro, in quella scorza di farina, vino, zucchero e strutto ripiena di pastosa ricotta dolce pronta a sbucar fuori in barba a ogni regola di contegno conviviale, fosse racchiusa una tracotanza degna di passare alla leggenda. Doppio senso, furbizia, ingenuità, commessi di Palazzo d’Orléans ritardatari tanto da costringere il presidente stesso a svolgere quell’ufficio di “sbarazzo” della scrivania, fotografo troppo bravo a cogliere l’attimo fuggente (Michele Naccari copywright)?

Anche stavolta, dunque, il cannolo è stato simbolo, croce e delizia, viaggiando più veloce nell’immaginario di quanto per un capriccio della gola, per un monumento mondiale della pasticceria si potesse immaginare.

La fascinazione del cannolo. Intramontabile, globale, spesso retaggio oleografico, è vero, una condanna che accompagna i simboli fuori dal tempo, i segni della tradizione millenaria. Come per Francis Ford Coppola che lo celebra in ben due capitoli del suo «Padrino»: nel primo, quando Peter Clemenza ordina al suo sgherro, che ha appena freddato alla nuca un traditore, «lascia la pistola e prendi i cannoli» e, a morto ancora caldo, vanno via col pacchetto infiocchettato; nel terzo e conclusivo film della saga, in un crescendo di orrifico kitsch criminal-folcorico che ha per sfondo il Teatro Massimo di Palermo, quando Connie Corleone ne offre uno avvelenato a Ozzie Altobello che sta godendosi “Cavalleria” tra i velluti di un palco. Nemmeno la fatale bavetta veneno-casearia che fa capolino dalla bocca di Eli Wallach stecchito, potrebbe indurre – confessiamolo – a una pur timida diffidenza.