“Abituato, c’eri”. È il motteggio scherzoso che ci scambiavamo tra amici, quando ero scapestrato fra scapestrati al liceo. Si apostrofava così chi fingeva indifferenza e a malapena tratteneva eccitazione davanti a un lusso mai visto, vantaggi mai sperimentati. Un robusto richiamo alla realtà, alla ragion pratica.

“Abituato, c’ero”: non è escluso che torneremo a dirlo a noi stessi nei prossimi giorni davanti a un rubinetto che scroscia nel lavandino di casa, sotto un soffione di doccia salvifico, cose che potrebbero farsi desiderare. Si sa: è successo quel che di brutto poteva succedere, i nubifragi, gli smottamenti, le vittime innocenti e tutto il resto. Adesso, asciugate le lacrime, e grazie alla resilienza (tradotto: “tirare per il proprio”) che ci caratterizza, torniamo a guardare al lavello domestico; e già si vocifera che resterà all’asciutto. Il fango a fiumi ha spento vite umane: figurarsi se avrebbe risparmiato gli invasi di città e provincia. Il potabile è diventato impuro, succo di sentina. Si paventano, quasi a mo’ di penitenza per i nostri teatrali dolori e il nostro smozzicato egoismo, penuria d’acqua o erogazione azzerata.

A me poco importa, e non perché non ami lavarmi, ma proprio perché “abituato c’ero”. Sembra storia di secoli fa, però risale alla fine degli anni settanta. Abitavo all’Albergheria e lì, all’epoca, i rubinetti di casa ruttavano di mattina e si zittivano da mezzogiorno all’indomani. Era acqua di Scillato, ripeteva un mio vicino, ma col tono di chi gode di un bene prezioso che gli viene lesinato. Mia mamma, più pratica, teneva piena la modesta vasca da bagno che doveva bastare per grandi e piccini. Colma, sempre. Io ogni tanto ci tuffavo i giocattoli. Era il mio oceano azzurrognolo. Finché non mi presi uno scapaccione. Quell’acqua serviva per le necessità. Un giorno un mio cugino toscano, ospite sbruffone, ci si lavò il torso nudo dopo una sudata. Mia madre lo incenerì di strilli.

L’acqua non è un bene da scialacquare, né garantito; questo imparai. E oggi, paradosso, dei paradossi, più che mai, proprio quando ne è piovuta tanta da ammazzarci. Per l’acqua, al pari del pane, sono scoppiate rivoluzioni. Non mi aspetto tanto. Mi chiedo piuttosto quanto ci impiegheremo, dai nostri scranni dei social network, a passare dal dolore per le vittime di Casteldaccia ai ruggiti contro “i cornuti di Amap e Comune” che ci hanno lasciato a secco. Dai fremiti dell’anima al bruciore delle ascelle sudate.