Trent’anni per catturare Messina Denaro non sono certo pochi, e per trent’anni l’ultimo esponente della mafia stragista ha goduto di protezione e di complicità, ha vissuto nel suo mondo, resistendo alla decapitazione di tanti suoi sodali e parenti e alle ricerche che, con alternante intensità, sono state organizzate.

È stato protetto da una vasta “zona grigia” omertosa e impaurita, quella che ha sempre offerto il brodo di coltura alla mafia ed ha intrecciato accordi e affari con la “borghesia mafiosa” del territorio. Quanto emerge in questi giorni conferma che c’è ancora tanta strada da fare per vincere la guerra. Eppure l’arresto di Messina Denaro è una bella, grande, battaglia vinta, un successo dello Stato, una prova che esso è in grado di far valere la propria forza.

Se la racconti così, senza alcun trionfalismo, se dai atto alla Procura della Repubblica di Palermo e alle forze dell’ordine, allo Stato in una parola, di efficienza, di severa sobrietà, se sostieni che la cattura del boss rappresenta il raggiungimento di una tappa importante di quel difficile percorso che, con risvolti tragici e costi umani enormi, è iniziato nel 1986, con il maxiprocesso messo a punto da Falcone e Borsellino e proseguito, non sempre con il vigore e l’impegno necessari, fai arricciare il naso a tanti, che per il naso non si fanno prendere, perché, loro, sanno o pretendono di sapere come in effetti sono andate le cose.

Sanno che si è trattato di una finta vittoria, di una messa in scena all’interno di quella “trattativa” che sentenze, logica e buon senso non riusciranno a smentire, fino a quando serve ad alcuni organi di stampa, a settori della politica e della magistratura per continuare a manifestare la sfiducia nelle istituzioni, per proclamare una loro verità, spesso senza prove e tuttavia garantita dallo splendore della militanza antimafiosa.

Quella verità espongono in tutti i talk show con sussiegosa certezza, con accuse generiche e indistinte, con ricostruzioni dal fascino di intrecci noir, col racconto di complotti molto più numerosi e intricati di quelli che in effetti sono avvenuti.

Raccontano della mafia come di un Moloch imbattibile, ancora più forte e pericoloso di quanto non sia stato al tempo dei frequenti omicidi e perfino delle stragi e di uno Stato che non ha la forza e principalmente la volontà di sfidarla.

Se tutto questo fosse vero, se poco o nulla è stato fatto in questi decenni per combattere la criminalità organizzata, se la sua forza è rimasta intatta, se le coperture politiche non dico siano finite, ma almeno si sono rarefatte, se il rifiuto della mafia non è cresciuto tra i giovani – meno per la verità tra altri settori della società -, se il fotogramma rimane quello di trent’anni addietro, la realtà della Sicilia e dell’intero Paese risulta disperante e tale da scoraggiare la denuncia e la voglia di sottrarsi al fascino perverso che ancora taluni settori della nostra comunità avvertono per quel fenomeno.

Quelli che hanno “arricciato il naso” dopo l’arresto di Messina Denaro sono i tantissimi frequentatori dei social che affermano assurde banalità e dei quali bisogna tener conto, senza meravigliarsi più di tanto, perché esprimono una convinzione diffusa. Molti anni di criminalizzazione della politica, di attacchi allo Stato e la permanenza di una antica sottocultura spiegano l’esistenza di questa folla di concittadini che non si lascerebbero menare per il naso.

Più di loro, ovviamente, hanno peso e offrono argomenti quanti svolgono ruoli politici e opinionisti che in questa circostanza tornano a parlare dell’esistenza di uno “Stato occulto”, sostengono che Messina Denaro conosce “segreti di portata enorme che, se venissero svelati, porterebbero forse alla destabilizzazione” senza specificare ed individuare a che cosa ci si riferisce, quali settori della politica e dello Stato finirebbero destabilizzati..

È questa la convinzione di Roberto Scarpinato, l’ex magistrato che, nel suo ruolo politico, con un linguaggio a volte immaginifico, in Parlamento sta proseguendo la sua battaglia antimafia, spesso senza indicare – dovrebbe essere in grado di farlo per la sua lunga precedente esperienza – chi sono i componenti dello Stato occulto, come sono organizzati, come si muovono e ciò che rimane di un tempo ormai lontano, quello degli anni ’80 e ‘90, che sfida l’inesorabile trascorrere del tempo, i cambiamenti della politica e la crescita della coscienza civile.

Non cadrò ovviamente nella tentazione del controcanto di quanti ritengono che la battaglia contro la mafia allo stato attuale non possa avere esiti positivi e che, pertanto, di fatto consolidano la convinzione che è inutile schierarsi dalla parte dello Stato indicato come perdente.

Non voglio passare per chi non è consapevole della permanente forza del potere mafioso o per chi mette sullo stesso piano chi lo combatte comunque anche con argomentazioni che risentono di visioni ideologiche e chi tace, si defila, si fa complice della criminalità organizzata.

La mafia ha ricevuto colpi pesanti, è stata costretta ad arretrare. Resto consapevole comunque di quanta strada ci sia ancora da fare perché la legalità prevalga sul crimine, per bonificare questa terra, per individuare e sconfiggere la borghesia mafiosa, per ridurre l’omertà e la complicità, e dell’importanza della denuncia rispetto ai silenzi. Sono convinto che non bisogna edulcorare nulla, semmai dare una speranza ai tanti giovani, a cominciare dalla figlia di Messina Denaro, che, rifiutando il padre, rifiuta, ovviamente, il mondo che rappresenta, ai giovani perché non guardino con rassegnata sfiducia al futuro della terra nella quale vivono e non si sentano parte di uno Stato inerme, colluso, guidato o comunque condizionato da forze occulte, ma cittadini di uno Stato impegnato in modo sempre più determinato e inflessibile nella lotta alla mafia, evitando pause, percorrendo con determinazione la strada del contrasto imboccata tanti anni fa e non privando la magistratura e le forze dell’ordine degli strumenti indispensabili per la lotta in un contesto di regole chiare e di garanzie reali per tutti.

Nella foto l’ex procuratore di Palermo, Roberto Scarpinato