Per due anni abbiamo avuto l’avvocato del popolo, un professore di diritto senza arte né parte, in politica s’intende, uno sconosciuto che, per un’eccezionale congiunzione astrale, approdò a Palazzo Chigi, attribuendosi questo improprio, leguleo appellativo.

Nel tempo qualcosa ha imparato, ha smesso di riproporsi con toga e tocco e sta ora faticosamente tentando di accreditarsi capo di un movimento rissoso e sempre alla ricerca di una identità. Per quel che vale la mia opinione, non mi piacerebbe sia stato sostituito da un commissario del popolo- riferimento ad un tempo della storia di alcuni paesi ingloriosamente finito- un tutore delle istituzioni, un curatore fallimentare dei partiti e della politica. Nessun accostamento di Draghi a Conte. Diversi per storia, cultura ed esperienze, al primo non piace proclamare, rifugge dall’attribuirsi ruoli impropri, preferisce il basso profilo. E tuttavia, al di là della sua volontà, la permanenza a capo del governo con una sorta di unità nazionale rischia di evocare i precedenti riferimenti.

La scelta di Draghi è stata opportuna e necessaria in un momento di gravissima emergenza pandemica ed economica. Al tempo dei romani, durante le guerre, si ricorreva al dictator e nel Rinascimento si chiamava un podestà da fuori, quando le fazioni della città non trovavano l’accordo per governarla. L’una e l’altra scelta avevano un preciso limite temporale. Duravano finché durava la guerra. Poi tornavano il Senato, i consoli, i tribuni della plebe e, nel Rinascimento, cessati gli scontri, i partiti riassumevano la guida delle comunità.

Ed è un percorso analogo che immagina di fare Draghi, un percorso che si concluderà quando sarà finita la pandemia e quando verranno approvate le riforme alle quali è legata la disponibilità delle risorse europee. Purtroppo su entrambi i versanti questo risultato non si intravede come prossimo per il ridiffondersi del virus e per le difficoltà frapposte al governo da una maggioranza eterogenea e rissosa. Per fortuna Draghi non pretende di avere il controllo assoluto delle istituzioni, come nello stato di emergenza teorizzato da Carl Schmitt e cerca faticosamente di tenere insieme forze politiche contraddittorie e di non debordare dal suo ruolo. Qualcuno, tuttavia, ha immaginato che possa sommare la funzione di presidente della Repubblica a quella di capo del governo. In modo informale, s’intende.

Cioè di fatto. Non si deve sottovalutare che la sfiducia della gente nei partiti e nelle istituzioni fa crescere il convincimento della inutilità dei vincoli e degli equilibri costituzionali per preferire soluzioni più sbrigative e apparentemente più efficaci. Una spinta in direzione di questa pericolosa deriva viene dalla manifesta incapacità dei partiti a riassumere il proprio ruolo nel sistema ordinamentale. Le fazioni continuano a scontrarsi senza criterio ormai da anni e il ricorso a quelle che si chiamano risorse della Repubblica si sono ripetute. Proprio il senso dello Stato hanno largamente perduto quelli che dovrebbero reggerlo e guidarlo e le necessarie eccezioni, possono diventare un rischio, un ostacolo all’attivazione dei normali processi della democrazia che si regge sui partiti. È il cane che si morde la coda.

L’elezione del nuovo presidente della Repubblica crea una situazione naturalmente prevista e prevedibile con la quale devono fare i conti la eccezionalità della scelta governativa e la sua prosecuzione. La domanda più ricorrente è se Draghi debba andare al Quirinale o se sia preferibile rimanga a Palazzo Chigi anche per garantire che la legislatura arrivi alla sua naturale scadenza, oltre che per attuare i punti essenziali del suo programma. E, come corollario, segue la domanda meno esplicita e tuttavia leggibile: sapranno le forze politiche governare il Paese, permanendo l’emergenza e in presenza dei vincoli europei sul piano nazionale di ripresa e resilienza? Le elezioni anticipate provocherebbero un danno incalcolabile o rimetterebbero nella normale carreggiata la maggioranza e la minoranza che usciranno dalla volontà degli elettori? La risposta immediata può essere no. Non saranno in grado di farlo i partiti per il tasso di litigiosità e per la scadente qualità delle classi dirigenti. Tuttavia la prosecuzione di una sorta di ricreazione, la perdurante deresponsabilizzazione, il permanere al governo e insieme all’opposizione, non può durare troppo a lungo e non giova alla democrazia e al buon ordine costituzionale, non garantisce neppure il prolungamento della vita di questo governo che trova gli alleati più affidabili nella pandemia, nel suo riaccendersi, oltre che nel prestigio del presidente del Consiglio.

Se Draghi non va al Quirinale dove potrà essere, come lo è stato Mattarella, il punto alto di equilibrio istituzionale, il riferimento certo per la tenuta sociale del Paese, il garante di ciò che rimane della sua affidabilità all’estero, si è sicuri che potrà proseguire con risultati apprezzabili nella sua azione di governo? E se la partita del Quirinale finirà con uno scontro tra i grandi elettori e con un risultato che non sarà riconosciuto da tutti come elemento di garanzia, di imparzialità e di rispettabilità, non si darà un ulteriore, pesante colpo al residuo di fiducia nel sistema politico? Ai partiti prima o poi si dovrà tornare. Può darsi che, sfidati a governare in modo diretto, con maggiore omogeneità, ritrovino autorevolezza, identità e fiducia in se stessi. Si può sperare che il Parlamento, sfregiato nella sua composizione e nella sua rappresentatività da un becero populismo e privato in buona misura del proprio ruolo, ritrovi la funzione che la Costituzione gli assegna. La democrazia rappresentativa, che ribadiamo sui partiti si regge, diceva Churchill, è la peggiore forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora.