Non vorremmo apparire blasfemi accostando il libro della Genesi alle prime “piazzate” dei nostri due vice-premier, ma rileggendo la domenica siciliana di Salvini e Di Maio – la prima in assoluto da nuovi attori protagonisti del governo del cambiamento – e provando ad analizzarla seriamente, il rischio si presenta. Di Maio e Salvini, Salvini e Di Maio, soffrono (forse) di manie di grandezza. O, forse, sono talmente inesperti di maneggiamento della res publica da arrivare a credere di poterla pastellare come credono. O forse, e qui ritireremmo il dito puntato, sono grandi sognatori e abili affabulatori/comunicatori (poco importa per i congiuntivi di Giggino, diamo a Cesare quel che è di Cesare).

Il loro verbo infiamma le platee, composte di fan adoranti che non aspettano di sentirsi dire ciò che sanno gli verrà detto. Ma non è mica colpa loro. La politica si è inabissata a tal punto, che le voci fuori dal coro dell’istituzionalmente corretto – i populisti – raccattano voti e simpatie, persino adorazione. Paola Taverna, che ha accompagnato Di Maio a Marina di Ragusa per sostenere il candidato sindaco dei Cinque Stelle, è stata quanto meno sincera: “Quando provano ad offendermi mi danno della popolana. Io rivendico questa definizione: perché io sono una donna del popolo”.

Di Maio e Salvini sono, invece, gli hombres di famiglia: entrambi scamiciati, in bianco, atletici. Uno sul predellino – rubando a Berlusconi l’ultimo segno distintivo della sua innovazione, ricordate San Babila e il Pdl? – l’altro su un palco gremito di attivisti, con magliette a tema (la scritta #IovotoAntonio per sostenere il candidato Tringali è una trovata discutibile, per informazioni citofonare Cetto La Qualunque). L’uno, Salvini, dice che la Sicilia è diventata la sua “seconda casa”; l’altro, Luigi, che “tornerò in questa piazza a chiedervi come state e non vorrò mai vedere una transenna che ci separi”. Come Vasco, che in ogni stadio, rivolgendosi ai fan, aizza: “Siete il pubblico migliore che abbia mai avuto”

Ma torniamo ai temi, che la storia si fa intrigante. Se Dio il primo giorno creò il cielo e la terra, separando la luce dalla tenebre, Luigi Di Maio, forte del suo 32%, abolirà i vitalizi per gli ex parlamentari: “E vengano a fare tutti i ricorsi di questo mondo – ha sentenziato dal palco di piazza Malta -, non ci importa. Il presidente della Camera Fico ci lavora da due mesi: la delibera è pronta e sarà uno dei primi provvedimenti del nostro governo”.

A Gigì, scansate che è il turno dell’amico tuo. Mentre Dio, al secondo giorno, separò le acque sopra il firmamento da quelle sotto, il leader del Carroccio prenderà in consegna le centinaia di migliaia di migranti giunti nella nostra terra, ricacciandoli indietro: “Perché le espulsioni di Minniti mi sembrano pochine. E La Sicilia non deve più essere il campo profughi d’Europa”. E contestualmente incontrerà l’omologo tunisino per fare in modo che dal paese nordafricano si “importino” solo cittadini perbene, non i galeotti degli ultimi tempi. Diplomazia, arrenditi.

Terzo, quarto e quinto giorno lo sconteranno entrambi in campagna elettorale, che torna sempre buona. Al sesto, diranno stop alle modifiche del regolamento di Dublino, approveranno il reddito di cittadinanza (con quali soldi poi), apriranno nuovi centri d’espulsione e sforbiceranno i 5 miliardi destinati all’accoglienza dei disperati, rivoluzioneranno i centri per l’impiego e imporranno il salario minimo orario, oltre ai referendum propositivi senza quorum (“Così decide chi vota, non chi va al mare” suggerisce Di Maio con la camicia pezzata, a due passi dalla battigia). E il settimo giorno, mentre Diò si riposò, loro no “perché c’è un sacco di lavoro da fare”. E aboliranno insieme la Legge Fornero. L’uno troverà anche il tempo di battagliare con Saviano a suon di tweet, l’altro per uno scopone scientifico in compagnia dell’ex imprenditore fallito Sergio Bramini, nominato consulente per le Imprese al Ministero.

Fermi, stiamo deragliando. E po’ anche sbragando. Ci siamo fatti prendere la mano. Come loro d’altronde, che pensano di rivoltare l’Italia come un calzino a tempo di record.