“Siete matti”: cercò di liquidarseli con due parole. E aggiunse: “Io ‘lì’ non ci andrò mai”. Per lui era chiusa lì ma alla “Ricordi” furono irremovibili: “Giulio, per favore, convincilo tu”. Giulio, al secolo Rapetti, in arte Mogol, chiese aiuto a Giampiero Reverberi che è stato non solo un grande direttore d’orchestra ma un arrangiatore a dir poco geniale. Certo, la sala d’incisione, a Milano, era stata tutt’altra cosa, “lì” invece o la va o la spacca, tre minuti e mezzo come in un gioco a dadi, la concertazione tra l’orchestra e l’interprete che cantava dal vivo, il pubblico, le telecamere, le giurie… bisognava stupire con qualcosa di ancora più dirompente, grintoso, quasi inedito per quel posto, far decollare la canzone da una pista su cui partire lenti come in una ballad e poi… zac, cambiare subito di ritmo, d’atmosfera, tirar fuori la grinta, magari con uno spiegamento di fiati mai sentito: trombe, sax, tromboni.

Mai dire mai: fu così che Lucio, all’anagrafe e in arte Battisti, si presentò sul palcoscenico del Salone delle Feste del Casinò di Sanremo, esattamente 50 anni fa, come oggi, giovedì 30 gennaio 1969, per la prima e ultima volta “lì”: “Non sarà un’avventura, non può essere soltanto una primavera, questo amore non è una stella, che al mattino se ne va, no no no no no no no…”. E Reverberi, alla sua destra, accendeva la miccia e l’orchestra si trasformava in una big band e dava fuoco al più scatenato rhythm’n’blues che si fosse mai ascoltato da quelle parti e perfino i 4 + 4 di Nora Orlandi battevano le mani a tempo. Quando Lucio arrivò in Riviera si vide costretto a fare il tragitto dall’hotel al Casinò su un’auto scortata, coi vetri oscurati: non per un sovrappiù di divismo ma perché quello fu un festival “blindato”.

Nonostante il gelo dei “giorni della merla”, soffiava il vento caldo del ’68, il festival era considerato evento borghese e reazionario, passatista sul piano musicale, la Rai aveva deciso di trasmettere le prime due serate sul Secondo Canale e solo la terza, quella della finale, sul Primo Canale, in città c’erano gli universitari arrivati da Milano per contestare fuori dal Casinò, Dario Fo e Franca Rame facevano un “controfestival” per studenti e operai a Villa Ormond.

“M’hanno fregato” avrà pensato Lucio appena arrivato, chissà. Però la sera del 30 gennaio 1969 era “lì” su quel palco. Leggenda vuole che fosse così teso e che volesse sbrigarsi a tutti i costi a cantare e tornare in albergo alla chetichella, anche perché il sorteggio lo aveva voluto per primo in gara, a rompere il ghiaccio. Leggenda vuole che quando Gabriella Farinon presentò la sua esecuzione di “Un’avventura” (la seconda era affidata a Wilson Pickett, grande voce blues from Prattville, Alabama) non fece in tempo a finire l’annuncio “apre questo festival di Sanremo ‘Un’avventura’ di Battisti-Mogol, dirige l’orche…” che lui stava già entrando in palcoscenico (sulla più brutta scenografia che il Festival abbia mai conosciuto) e fu Nuccio Costa dietro le quinte a tirarlo per la giacca e ad evitargli figuracce.

E comunque Lucio cantò, con un look un po’ swinging London, giacca di velluto nero, lungo foulard al collo, un’icona non solo per gli annali festivalieri. Cantò anche abbastanza bene, con qualche incertezza d’intonazione iniziale ma poi apparentemente divertito, con gran roteare di braccia e di mani con cui accompagnava il ritmo. Conquistò un onorevole 9° posto su 24 canzoni in gara: un piazzamento in cui nemmeno sperava, manco se glielo avesse predetto la “Zingara” dalla quale Bobby Solo e la Zanicchi volevano solo conoscere le sorti del cuore e grazie alla quale salirono sullo scalino più alto del podio.