Cateno De Luca, in vista delle competizioni elettorali del prossimo anno, lancia nell’arena Sicilia Vera. L’1 e 2 ottobre, a Taormina, nel corso dell’assemblea regionale del suo movimento, verranno organizzati incontri e tavoli tematici con personalità di spicco del mondo della politica. Dall’hotel Diodoro partirà l’assalto a palazzo d’Orleans (questa mattina la presentazione all’Ars). Il sindaco di Messina, che nel frattempo si diletta anche con la musica (celebri i motivetti su “Armao Meravigliao”), è sicuro di partecipare. Certamente da protagonista. Quasi certamente da candidato alla presidenza: “Il mio egocentrismo è notorio – si sbottona da subito –, è chiaro che l’obiettivo è competere in prima persona. Per questo ho già annunciato che nel prossimo febbraio darò le dimissioni da sindaco”.

Non c’è nulla che possa farle cambiare idea? Da qui a febbraio gli equilibri politici potrebbero essere stravolti…

“La mia strategia non è condizionata da visioni personali. In questa partita a tutto campo, potrei giocare anche da numero 2. Ma devono portarmi un candidato che abbia amministrato quattro comuni o abbia un’esperienza pari alla mia, che ne ho guidati tre. Bisogna far recuperare a questa terra il tempo perduto, partendo dal presupposto che chi è stato complice di questo sfascio, non potrà far parte della nuova squadra di governo. E Musumeci non può più riproporsi perché non c’ha i titoli”.

L’iniziativa dell’Ars avrà un seguito l’1 e il 2 ottobre all’hotel Diodoro di Taormina, dove si terranno dei tavoli tematici a cui parteciperà anche il segretario del Pd. Ammetterà che è un po’ strano parlare da un lato con Stancanelli e dall’altro con Barbagallo…

“Io non ne faccio una questione politica. Le tematiche su cui confrontarci sono di carattere trasversale”.

Quali sono i presupposti su cui costruire una candidatura organica?

“Metodologicamente, non accetto che sia un salotto romano, in base ad equilibri nazionali, a decidere chi debba essere il candidato alla presidenza. Questa cosa, da sturziano convinto, è contraria ai miei principi. Seconda cosa: nessuno, oggi, può pretendere di sventolare il vessillo del buon governo, perché nessuno ne ha titolo. Negli ultimi vent’anni la Sicilia è stata stuprata da tutto l’arco costituzionale, ci sono personaggi che passano da un partito all’altro pur di riciclarsi, per cui bisogna cambiare metodo e impostazione. Chi saranno i coraggiosi ad accettare la mia sfida? In questo momento non saprei. Ma non mi pongo limiti. E non ho pregiudizi nei confronti di nessuno”.

Il suo amico Salvini – entrambi avete sempre confermato un ottimo feeling – pretende che il prossimo candidato governatore sia un leghista. Qualcosa in contrario?

“Se per potersi candidare alla presidenza bisogna per forza militare nella Lega, io non ci sto. Sul metodo io e Salvini siamo distanti”.

Anche lei era stato accostato alla Lega qualche mese fa, poi cos’è accaduto?

“Salvini sta portando avanti un’operazione di riciclaggio politico, che coincide col tentativo di molti personaggi del passato di rifarsi una verginità transitando nella Lega, che li ritiene funzionali a uno scopo: sfondare in Sicilia grazie a questi rais delle preferenze. E’ un metodo, di per sé legittimo, che non combacia con la mia visione”.

Quando ha sentito Salvini l’ultima volta?

“L’altro ieri per messaggio”.

E cosa vi siete detti?

“Lui parte dal presupposto che in Sicilia – uniti – si vince. Io gli ho risposto che la partita va impostata in Sicilia e che il candidato deve possedere l’esperienza e la spregiudicatezza amministrativa per fare tutto ciò che non si è fatto e non si è avuto il coraggio di fare. Con Salvini i rapporti sono questi: io non attendo di essere battezzato per fare il primo passo”.

Aspetta che le vengano dietro?

“La divergenza sul metodo non significa che se Salvini – come il Pd o i Cinque Stelle – vengano folgorati sulla via di Fiumedinisi e decidano di appoggiarmi, io mi tiri indietro. Tutt’altro: proprio perché non ho alcun pregiudizio, spero che questa folgorazione ci sia. Ma un conto è la folgorazione, un’altra è la subordinazione. Io non mi sento subordinato a nessuno”.

Abbiamo capito che il primo presupposto per governare la Regione siciliana, secondo lei, è aver maturato una lunga esperienza nelle Amministrazioni locali…

“L’amministrazione è collegata agli uomini e non alle appartenenze. Se oggi sai amministrare un condominio, domani probabilmente ci riuscirai con un Comune o una città metropolitana, dopo domani con la Regione. Ma se non sai amministrare un condominio perché non l’hai mai fatto, e di conseguenza il tuo ruolo è basarti sui comunicati stampa o sulle apparenze, fai danno alla comunità che amministri. A me non piace essere definito ‘politico’: io sono un amministratore. Sia di professione – ho fatto sempre il dirigente aziendale – che per la mia storia politica: ero il capo degli attacchini della Dc a Fiumedinisi, comune montano di mille abitanti, dove poi ho fatto il consigliere comunale e il sindaco; poi sono diventato parlamentare regionale; sindaco a Santa Teresa di Riva, un comune costiero di 10 mila abitanti; e infine a Messina, dove sono arrivato dopo una gavetta serrata”.

Sta dicendo che nessuno ormai è disposto a fare la gavetta?

“Questa Regione, negli ultimi anni, non è stata amministrata. Tutti hanno fatto politica approfittando dei ruoli istituzionali. Ma l’ordine va invertito: la buona politica viene dalla buona amministrazione. Perché, secondo lei, Cateno De Luca sbarca a Messina, che non è la sua città, e vince contro tutti i partiti? Mi rispondo da solo: perché ho la fama di saper amministrare. Adesso, invece, ci ritroviamo in un deserto dei tartari formato da una classe politica che non sforna amministratori, ma solo poltrone da occupare. Così si partoriscono tanti imbecilli che rischiano di segnare il destino di un’istituzione”.

Ci faccia capire: qual è stato il momento chiave di questa Amministrazione in cui ha ritenuto che Musumeci non era più in grado di svolgere il suo compito?

“Alla vigilia della prima Finanziaria. Anno 2018. Nel cassetto dei fondi Poc trovo 1,5 miliardi. Una parte di essi è impegnata, ma senza nemmeno un’obbligazione giuridicamente vincolante. Carta straccia, in pratica. Così chiamo Armao: pretendo si faccia un piano straordinario per mettere in movimento quelle risorse, sbloccando quelle che da anni risultavano impegnate su cose mai fatte. Quando mi risposero che quei soldi non si dovevano toccare, ch’era tutta una questione di equilibri, presentai cinquemila emendamenti per bloccargli il percorso della Finanziaria. Ero già passato al gruppo Misto. Poi scrissi l’articolo 99 della Legge di Stabilità, composto da 35 commi, per rimettere in circolazione 500 milioni, un terzo di quella somma. C’erano dentro una serie di interventi per tutta la Sicilia, e in parte anche per Messina – dove stavo per candidarmi a sindaco – che negli anni s’era vista scippare i fondi per lo sbaraccamento, e aveva necessità di acquisire l’area dell’ex Sanderson, appartenente al patrimonio dell’Esa: una bomba ecologica a cielo aperto, di venti ettari, che necessitava di una bonifica già calcolata in 25 milioni. Interventi utili, non marchette. La proposta passò in aula, venne impugnata da Palazzo Chigi, ma la Regione vinse di fronte alla Corte Costituzionale. Da quel momento è passato un anno e mezzo, e ancora non ci sono i provvedimenti attuativi. Lì ho capito che Musumeci non aveva alcuna intenzione di amministrare la Sicilia”.

Ne avete mai parlato?

“Mai. Il governatore con me non s’è mai voluto confrontare. Quando lo mettono alle strette sul nostro rapporto, la sua risposta è la solita: “Parliamo di cose serie”. Un presidente di Regione che si alimenta di rapporti di coalizione, di visione e supporto politico non può giocare a fare il settario. Fosse un gigante alla Zaia, capace di proiettare il proprio consenso su chi lo circonda, potrei capirlo. Ma qui è successo l’esatto contrario: Musumeci è stato talmente bravo da far perdere consenso all’intera coalizione che lo ha sostenuto. Dovrebbe cospargersi il capo di cenere, indossare il saio e venire fino a Fiumedinisi”.

Anche lei, però, c’ha messo i suoi mezzi per farlo eleggere.

“Io ad agosto 2017 l’ho sdoganato. Stavo facendo la lista con Raffaele Lombardo, il quale era innamorato di Armao. Ma io già sapevo quanto Armao fosse fanfarone sotto il profilo politico e contabile. Che diventasse presidente proprio non mi calava… Da lì ho rotto con Lombardo, e ho fatto l’apparentamento con l’Udc. Diventando uno dei big sponsor di Musumeci. Che nonostante tutto, in occasione del mio arresto tre giorni dopo la vittoria alle Regionali, ebbe a dire che su certi personaggi la politica dovrebbe arrivare prima dei pubblici ministeri. Non appena le accuse relative al mio secondo arresto però si sono rivelate inconsistenti, non ebbe il coraggio di spendere una parola nei miei confronti. Il processo, per la cronaca, si chiuderà nel prossimo novembre, dopo quattro anni, ma si è concentrato su profili secondari che non giustificano la privazione della libertà”.

La doppia morale.

“Le racconto un altro episodio. Era il 27 giugno 2011 quando venni arrestato per la prima volta: ero sindaco di Fiumedinisi e parlamentare regionale. Mi dimisi da entrambe le cariche per un avviso di garanzia. Sapevo di essere finito in un tritacarne (il processo terminerà dopo 8 anni, con l’assoluzione su alcuni capi d’imputazione e con la prescrizione per altri), ma alle Regionali del 2012 decisi di rimettermi in gioco. A luglio mi viene a trovare il buon Musumeci, che era uno dei tre candidati in lizza per la presidenza, assieme a Crocetta e Miccichè. Gli consegno i miei studi sugli sprechi della Regione e concordiamo insieme la mia presenza in lista. Quando nel settembre successivo venne chiuso l’accordo a casa di Berlusconi, Musumeci, senza aver parlato con nessuno dei suoi alleati, pose una pregiudiziale su tutte le persone indagate o che avessero dei processi a carico. Giuseppe Castiglione, che all’epoca era il coordinatore regionale di Forza Italia, mi chiamò dicendomi: “Cateno, mi dispiace ma non puoi più candidarti con noi”. Così scesi in campo da solo, per l’onore delle armi. Credevo che dopo dieci anni questa persona avesse raggiunto un livello di maturità diversa, ma così non è stato. E per la legge del contrappasso si è ritrovato nella posizione in cui è il suo “delfino”, oggi, a dover rispondere ai giudici. Fra l’altro aspetto di poter leggere tutte le carte dell’inchiesta, in cui l’assessore Razza confabula coi suoi collaboratori per capire come si può mettere il bavaglio al fastidioso sindaco di Messina”.

Secondo lei l’inchiesta sui dati falsi ha deteriorato la fiducia dei cittadini nei confronti della sanità siciliana, arrivando a influire sulla campagna di vaccinazione?

Il caffè fra De Luca e Stancanelli

“Ha creato un senso di sfiducia complessiva. Io per primo, nella fase acuta della pandemia, mi sono assunto delle responsabilità invadendo il campo di Musumeci. Che, da parte sua, ha emanato provvedimenti contraddittori. Oggi noi scontiamo una situazione di difficoltà perché la gente non lo riconosce come un riferimento credibile. In realtà Musumeci non capisce di carte amministrative, e i bilanci pensa siano quelle che si utilizzavano un tempo nelle putìe per pesare gli alimenti. Lo sanno tutti, ma per evitare che tutto questo venga a galla, lui si circonda di nani. E sfugge al confronto con chi è una spanna sopra di lui, o anche soltanto al suo livello. Ad esempio Stancanelli. E’ stato lui a inventarsi Musumeci presidente della Regione, ed è stato lui a prendersi i primi calci in culo… L’ho invitato per un caffè quando ho letto la sua intervista a ‘La Sicilia’. Ne ho apprezzato innanzitutto l’equilibrio: è difficile mantenere un aplomb così elevato quando vieni insultato o sbeffeggiato com’è successo a lui, in occasione del congresso di Diventerà Bellissima di due anni fa. Gli ho detto: ‘Raffaele: sembravi più democristiano che fascista’”.