La battaglia di Letizia è una battaglia fuori dal tempo, dalle epoche, dai costumi e soprattutto dagli anniversari. È certo uno specchio della nostra storia recente, una testimonianza importante ma esemplare e proprio perché esemplare ancor più universale, non etichettabile, non incasellabile, un po’ come “la fotografa della mafia” è stata una definizione generica e ingenerosa che a Letizia andava stretta, dispiaceva. Fatto sta che per una capricciosa congiunzione astrale (di quel capriccio che a Letizia, per carattere, per tigna, sarebbe magari piaciuto) è accaduto che Letizia Battaglia sia mancata pochissimo tempo fa, a poco più di un mese dal trentennale delle stragi mafiose del ’92, dal quel nuvolone di esplosivo, fuoco ed asfalto di Capaci che proprio oggi si ricorda, che nulla forse ci fosse di televisivamente appropriato, di inedito e subito disponibile al di là dei reportage e dei concionamenti giornalistici per la commemorazione (impossibile riciclare certi prodotti – alcuni anche di discreta qualità – dove i protagonisti-simbolo delle tragiche storie si sono trasformati dopo anni di superfetazioni e repliche in un imbarazzante carosello di attori). E allora, ecco che «Solo per passione – Letizia Battaglia fotografa» sono sembrati l’opera e il titolo giusti.

Ma per fortuna c’è Roberto Andò che certo non poteva sottrarsi al clima di impegno civile di questi giorni, pur smarcandosi dall’incoccardamento un po’ forzato di quello che peraltro, nella sua lunga esperienza di regista, è il suo esordio televisivo e per giunta in una serie, due puntate, in due prime serate clou della programmazione settimanale, con tutto quello che la nuova grammatica per lui comportava prima, durante e dopo il set.

Ieri sera è scorsa via la prima parte, quella più privata, quella della Letizia donna refrattaria già da bambina a convenienze di genere e di ruolo, del timido ma consapevole, determinato approccio al giornalismo, di una curiosità timorosa e spavalda al tempo stesso; stasera la seconda, quella più pubblica, quella della Letizia testimone di fatti e misfatti della sua città, raccontati per immagini che fanno il giro del mondo, di piccola e grande criminalità, di ordinari e straordinari intrighi, senza tralasciare gli strappi privati, le ferite, le lacerazioni che anche quelli servono a costruirsi e a costruire. Forse la parte più “adatta” al clima di oggi, 23 maggio fatidico, in saecula saeculorum.

Ma è il “clima” artistico quel che importa oltre che Letizia Battaglia, intrigante da raccontare come persona in sé e come personaggio pubblico (fotoreporter di caratura internazionale, politica e intellettuale a suo modo, a tutto tondo ma fuori dalle regole, per fortuna lontana da pennacchi e lusinghe del bel mondo), è il climax che Roberto Andò concorre a creare, a far montare. E nel confronto con la nuova narrazione, quella per il piccolo schermo, si cala con maestria, entra nel mood pop di una serie tv senza timori di non assecondarne gli stilemi ma fedele invece al suo, di stile: sceneggiatura non una parola in più né una di meno – scritta con Angelo Pasquini e Monica Zapelli, con la collaborazione di Giulia Andò e della stessa Battaglia – ambientazione più ombre che luci di una Palermo sempre un po’ occhiuta – fotografia di Maurizio Calvesi che piove sulle scenografie di Giada Esposito e sui costumi di Maria Rita Barbera, cura dei dettagli (le Topolino e le 850 dove devono stare, così come gli sparecchiatavola o le prime cucina di fòrmica), certi stacchi di nero che indugiano tra una scena e l’altra, direzione serrata degli attori. A tal proposito, nella prima puntata: Isabella Ragonese ha la curiosità bambina e adulta, disarmata la prima, disincantata e spesso collerica la seconda, giuste per il personaggio, Fausto Russo Alesi (ultimo, autentico allievo di Ronconi fra tanti sedicenti post mortem) è strepitoso come Vittorio Nisticò ed Anna Bonaiuto, pur in poche pose, giganteggia, anche per somiglianza, con la sua Giuliana Saladino.