Sono stati due siciliani gli ultimi protagonisti della transumanza politica di questi giorni. Alla Camera dei Deputati il 101esimo parlamentare ha lasciato il Movimento Cinque Stelle, dove era approdato, attraverso un misterioso percorso, dalla sua esperienza nella sinistra democristiana. Egli, aderendo al gruppo misto, ha dichiarato di averlo fatto “nell’interesse reciproco (suo) e del Movimento”. Dal che si capisce che la scelta potrebbe essere avvenuta nel “suo” interesse, non essendo per nulla chiaro quale possa essere stato quello del Movimento, che continua a sfaldarsi con un ritmo impressionante.

Ad oggi, con il “nostro”, naturalmente il conto va costantemente aggiornato, il numero dei parlamentari che, in tre anni, hanno cambiato casacca è arrivato a 199, 126 deputati e 65 senatori. Dopo i grillini, è stato il Pd a perdere il maggior numero di parlamentari, complessivamente 35. Essi hanno formato i gruppi di Italia Viva per dare a Renzi uno strumento personale, immaginando eclatanti successi e finendo per navigare “brillantemente” tra il due e il due e mezzo per cento dei sondaggi. Da Forza Italia sono usciti 26 degli eletti. La Lega ha visto crescere di 10 unità i suoi gruppi, Fratelli d’Italia ha avuto 4 nuove adesioni, e molte di più ne ha avute il mitico gruppo misto, il “parcheggio” dove ci si posiziona, mantenendo cariche e finanziamento pubblico senza alcun obbligo derivante dall’appartenenza ad una forza politica.

In Sicilia il “traffico” si è sviluppato dal Pd verso Italia Viva, dal Movimento Cinque Stelle sono usciti 5 deputati per formare un nuovo gruppo in soccorso di Musumeci. Nei numerosi passaggi tra i partiti della destra, la Lega ha svolto il ruolo di principale calamita.

In questi ultimi giorni, un deputato eletto in Forza Italia è, appunto, transitato nel partito di Salvini, portando a 23 su 70, poco meno del 30 per cento, gli “inquieti” che hanno saltellato qua e là alla ricerca di un soggetto politico che soddisfacesse, si fa per dire, i loro “valori” e la loro “cultura” o piuttosto la convenienza di ciascuno. Qualcuno, dopo due o tre passaggi, è ritornato all’interno della forza politica dove era stato eletto. Di fronte alla quantità dei cambia casacca, il trasformismo al quale De Pretis diede vita nel 1880 – “se qualcuno vuole entrare nelle nostre file … se vuole trasformarsi … come posso io respingerlo?”, fu una roba di poco conto.

Come si può, non dico giustificare, che risulta impossibile, ma almeno capire, dare una lettura esauriente di ciò che succede da anni e che di recente ha avuto una forte accelerazione? Per dirla in breve, alla base del fenomeno c’è la realtà di partiti senza cultura né radici, una selezione improvvisata della classe dirigente e lo svilimento della politica e delle istituzioni, che rischiano, senza inutili e sbagliate generalizzazioni, di apparire come una sorta di mercato dove modesti personaggi vendono e comprano, secondo le necessità del giorno.

Vi sono rimedi che possano, se non stroncare, limitare, rendere meno conveniente un fenomeno proprio dell’Italia, pressoché inesistente negli altri paesi senza intaccare l’articolo 67 della Costituzione, che regola il divieto del mandato imperativo, in virtù del quale i deputati e i senatori non sono vincolati al partito che li ha fatti eleggere, ciascuno rappresentando l’intera nazione?

La ipotesi di abolire il gruppo misto alla Camera e al Senato o piuttosto di consentire la sua formazione solo al momento della proclamazione degli eletti per accogliere coloro che non si riconoscono in nessuno degli altri gruppi e, poi, blindarlo, potrebbe costituire un importante ostacolo ai frequenti salti della quaglia.

Chi vuole trasmigrare può farlo, ma non si porta appresso il finanziamento pubblico, non gli è consentito di partecipare alle riunioni dei capigruppo, non rimane nei ruoli ricoperti nelle commissioni e negli uffici di presidenza ottenuti per il tramite del vecchio gruppo di appartenenza, resta privo di potere in una sorta di limbo. In Assemblea regionale si potrebbe elevare ad almeno cinque il numero dei deputati per la formazione di un nuovo gruppo, e adottare gli stessi provvedimenti che si immaginano per il Parlamento nazionale. Si rimarrebbe liberi di approdare a lidi diversi, ma ci si dovrebbe arrivare, per così dire, nudi e il nuovo approdo non si dovrebbe arricchire della dote finanziaria personale e dei ruoli di chi lo ha scelto per qualsiasi ragione.

Malgrado tutti i possibili rimedi, se i parlamentari “irrequieti” sono consapevoli di non pagare nessun prezzo all’opinione pubblica per le loro scelte di convenienza, se sanno di non rischiare nulla sul terreno della considerazione e della stima per la loro incoerenza, non esistono ostacoli insormontabili ai cambi di casacca, anche se possono scoraggiarli.

La prima Repubblica sembrò venisse seppellita dall’indignazione generale per le malefatte messe in luce da “mani pulite”, poi ci si accorse che quella indignazione era stato un fuoco di breve durata al quale seguì l’acquiescente accettazione di un diffuso livello morale non diverso né migliore rispetto a quello del passato. Quel livello, anzi, si è costantemente abbassato negli anni, insieme alla qualità della classe dirigente, ai modelli della sua selezione, al prevalere di partiti personali, privi di storia e di cultura, a volte veri e propri taxi utilizzati per raggiungere una meta e poi abbandonati al parcheggio.

Capita, così, di trovare nelle aule parlamentari e nelle istituzioni rappresentative, insieme a persone di indubbia qualità, scappati di casa senza arte né parte, gente priva di spessore e di valore, scelti magari per la fedeltà al “capo” del partito, o, nel caso dei cinque stelle, spuntati da un’improvvisa esplosione di ribellione anti sistema e anti casta e spinti nelle aule parlamentari da un numero esiguo di like. La politica appare in questo modo, pur evitando inutili ed errate generalizzazioni, quella sorta di mercato già richiamato, una bottega dove si espone merce diversa di incerta qualità, mantenendo ugualmente la clientela.

Anziché mettere in atto un’azione per così dire pedagogica e di consolidamento del senso civico, parte della classe dirigente finisce per dar vita ad un circuito vizioso, offrendo elementi ulteriori di discredito nei confronti delle istituzioni rappresentative e del sistema democratico. Il tempo nel quale le adesioni ai partiti erano un vincolo che quasi sempre durava per tutta la vita è scomparso insieme a quegli stessi partiti.

Non si devono avere rimpianti. Ma neppure dovrebbe avvenire, senza un moto di rigetto, che in Parlamento e in Assemblea, nell’arco di tre anni, vi siano stati e probabilmente continueranno ad esserci, passaggi vari da un gruppo all’altro, alla ricerca di personale utilità e che queste manifestazioni di opportunismo vengano considerate normali, accettabili e perfino prove di “spirtizza”.