Giulia Marchese è una siciliana di 27 anni che oggi lavora con la Umam, l’Universidad National Autonoma de Mexico, il più grande ateneo dell’America Latina con 350 mila studenti. Si occupa di ricerca e incrocia le sue passioni più grandi: la geografia umana e gli studi di genere. E’ rientrata dalle vacanze in Italia, in pieno agosto, per seguire un convegno sul femminicidio. Un fenomeno che anche il Messico fatica ad arginare e che Giulia, durante un altro dibattito su violenza e criminalità, nel cuore di Coyoacan, il quartiere-bene di Città del Messico, ha provato a spiegare compiutamente, di fronte a studiosi, magistrati, scrittori e giornalisti: “Non è una forma di omicidio. E’ un delitto particolare, è un crimine di genere. Il suo significato sta nel colpire le donne proprio in quanto donne”.

A margine del convegno, si è soffermata con un cronista del Fatto Quotidiano, cui ha raccontato la propria storia, dei suoi due nonni – uno contadino nel catanese, l’altro bigliettaio sugli autobus di Palermo – delle sue origini modeste: “La mia era una famiglia povera in tutti e due i rami. Appena uno dei genitori ha avviato un’attività soddisfacente sono arrivate addosso le arpie. Così ce ne siamo andati a Milano, a vivere liberamente”. La Marchese si è laureata in Sviluppo Globale e sociale all’università di Bologna, poi il dottorato di ricerca e una splendida carriera universitaria tra Francoforte e Città del Messico. Di recente ha avuto una consulenza dall’Agenzia nelle Nazioni Unite contro la droga e il crimine. Ora cerca di geolocalizzare la violenza che si abbatte sulle donne messicane, prova ad assegnare un linguaggio adeguato a questo schifo. “Io sono venuta qui per cercare la Sicilia, a darmi un nuovo punto di vista sulla mia storia – ha detto al Fatto – A provare a capirla fino in fondo”.