L’ultima proposta sul piatto di Termini Imerese è “green”. Qualche settimana fa, il consorzio Smart City Group, costituito da 15 aziende di tutta Italia, ha presentato una manifestazione d’interesse relativa al bando per la riconversione e riqualificazione del sito industriale che fu della Sicilfiat. Si potrebbe arrivare persino all’assemblaggio delle auto elettriche, senza però tralasciare lo scopo principale del progetto: la valorizzazione e il recupero della frazione organica dei rifiuti e delle biomasse dell’agricoltura; e la produzione di tecnologie per la mobilità sostenibile, come batterie e sistemi di accumulo. Un rinnovamento in piena regola per un sito che cinquant’anni fa, era il 19 aprile 1970, si candidava a diventare uno dei poli industriali più floridi del Paese. Ma la storia è ciclica e mercoledì scorso, con l’arresto di Roberto Ginatta, patron di Blutec, ha sancito la sua fase più “black”: addio industria dell’auto. Addio sogni di gloria.

Non è quella che si può definire una sorpresa. I 700 lavoratori dell’ex stabilimento Fiat, tutti in cassa integrazione, avevano capito l’antifona oltre un anno fa, quando una mega inchiesta della Procura di Termini – successiva alle visite rassicuranti dell’ex Ministro per lo Sviluppo Economico, Luigi Di Maio – sventrò l’azienda di Rivoli, a cui era stato affidato il rilancio dell’intero sito. L’accordo da 95 milioni con il Comune, la Regione siciliana e il Ministero allo Sviluppo Economico, si era rivelato un bluff. Dei 71 milioni di agevolazioni pattuiti dai contraenti, infatti, Invitalia – per conto del Mise e della Regione – ne aveva erogati 21, di cui almeno sedici (la conferma è arrivata ieri dalla Procura di Torino) venivano utilizzati per altri scopi, meno nobili e del tutto avulsi dal progetto stesso. Una parte consistente, circa 185 mila euro, veniva destinata all’acquisto dei biglietti per le partite della Juventus (manco del Palermo).

E’ stata la mazzata finale su un’esperienza disastrosa. L’epilogo di un’avventura lunga cinquant’anni, che accomuna il destino di Fiat, Blutec e relativi ascari a quella del signor Graziano Verzotto, nativo di San Giustino in Colle (in provincia di Padova), senatore della Democrazia Cristiana ed ex dirigente dell’Eni, che a cavallo degli anni ’60-‘70 era il presidente dell’Ente minerario siciliano e aveva deciso di portare nell’Isola, in società con la Solvay, la Chimica del Mediterraneo. Qualche traccia è rimasta sulla piana di Buonfornello, lungo il tratto d’autostrada fra Palermo e Cefalù, con tre caseggiati scheletrici che nessuno, dopo 50 anni di incuria, è riuscito e rimuovere. Sono tuttora ricettacolo di topi e manifesto d’impotenza. La fotografia segnante di ciò che ha significato l’avventura di Verzotto a Termini: un tentativo mal riuscito di rendere l’Isola il paradiso della chimica.

Verzotto immaginava tre linee di produzione: la Chimed, che avrebbe puntato sul bicarbonato di sodio; la Sofos, per la produzione di solfati; e la Cros (cromati). Ma qualcosa non va per il verso giusto e persino la Regione, che avrebbe voluto partecipare attivamente all’impresa, resta col cerino in mano. L’esperienza, di per sé, è l’emblema di uno schema consolidato, che poi tornerà di moda con Fiat e con Blutec: sfruttare i mille finanziamenti offerti a livello centrale (Cassa Depositi e Prestiti, Agensud, Patti territoriali, eccetera eccetera) per tentare di industrializzare la Sicilia, accumulare ricchezza – personale s’intende – e lasciare macerie tutt’intorno. Nel caso di Verzotto, scomparso nel 2010, le macerie corrispondono a decenni di contenziosi. Nel caso della Chimed, ad esempio, la vicenda si è chiusa soltanto nel 2002, grazie a un commissario liquidatore che ha mandato in archivio una causa ultraventennale fra la società e il consorzio Asi di Termini Imerese, con la possibilità di riassegnare un’area da 180 mila ettari (in cambio di mezzo milione di euro all’Ems) a chi ne facesse richiesta.

Dopo Verzotto, fu il momento di Mimì La Cavera, vulcanico presidente degli industriali siciliani, che negli anni ’70, sfruttando la propria amicizia con Gianni Agnelli, aprì all’arrivo della Fiat. All’inizio fu una grande intuizione. Termini divenne un avamposto della Cinquecento e di tante auto di successo. Ma anche un’occasione di riscatto irripetibile in un periodo storico che faceva registrare livelli record di emigrazione (verso le regioni del Nord e il triangolo industriale). La Regione partecipa al capitale sociale della nuova Sicilfiat col 40%. All’inizio entrano nello stabilimento, inaugurato il 19 aprile 1970, trecento dipendenti, che negli anni aumentano sensibilmente: nella seconda metà degli anni ’80, dopo che anche la produzione della Panda è avviata, si contano 3.200 operai. Ma a metà degli anni ’90 la crisi comincia a mordere: prima arriva la cassa integrazione, poi i primi licenziamenti. Il colpo di coda lo mette a segno il compianto Sergio Marchionne, che nel 2009 annuncia lo stop della produzione. Nel giro di un paio d’anni lo stabilimento viene dismesso.

A questo punto sono i lavoratori a diventare un intralcio. Il piano di rilancio del sito passa dall’esperienza disastrosa di Blutec, un’azienda di Rivoli, e dal tentativo di garantire un lavoro ai 700 operai (più i trecento dell’indotto) sfibrati dagli ammortizzatori sociali. Roberto Ginatta, che aveva costruito il suo piccolo impero all’ombra del Lingotto – vanta un’ottima amicizia con Andrea Agnelli, attuale presidente della Juventus – acquista lo stabilimento di Termini con l’idea di produrre componenti per auto e veicoli ibridi. Ma il piano industriale, da sempre molto cespuglioso, stenta a decollare. L’industriale torinese, prima dell’arresto del marzo 2019 e del sequestro dell’azienda, tenta un ultimo disperato assalto e firma un progetto di rilancio assieme al Ministero allo Sviluppo economico, la Regione siciliana e il Comune di Termini Imerese, dal valore di poco inferiore a 100 milioni. Di quei soldi ne vengono erogati solo una parte, e abbiamo appreso da poco che fine abbiano fatto. Ginatta viene arrestato per la seconda volta.

Uno strano scherzo del destino vuole che sia piemontese come un altro avventuriero della prima ora, Ezio Bigotti, papà del gruppo STI, di Pinerolo, il cui nome è stato associato alla Sicilia più volte. I fatti più recenti lo vedono coinvolto nel “sistema Siracusa”, quello allestito dagli avvocati Amara e Calafiore per pilotare le sentenze al Consiglio di Stato e al Cga, tramite un sistema di corruttela che tirava dentro anche i giudici. Ma Bigotti è famoso per un’altra questione, molto nota a Buttanissima: il censimento “fantasma” da 110 milioni di euro che nel 2007 la Regione siciliana commissionò a Sicilia Patrimonio Immobiliare, una partecipata tuttora in liquidazione, di cui – oltre alla Regione – faceva parte un raggruppamento temporaneo di imprese ben rappresentato dallo stesso Bigotti, che, nonostante la quota irrisoria (il 25%) era stato individuato come amministratore delegato. Il caso ha voluto che i dati di quel censimento, per tantissimi anni, rimanessero all’interno di server blindati e non più consultabili. Fino all’estate scorsa, quando l’assessorato all’Economia è riuscito ad accedere, ma li ha ritenuti inservibili.

In questo periodo, però, molte cose sono accadute: Bigotti ha fatturato un lavoro da 80 milioni alla Regione, che dopo aver bloccato l’ultimo pagamento con l’assessore all’Economia, Gaetano Armao, nel 2010, ha fatto causa e perso il lodo, dovendone sborsare altri 12. Nel portafogli della Spi, nel frattempo, sono entrati ulteriori 15 milioni per la rendicontazione e la svendita di 33 immobili che nel 2006, per iniziativa del governo Cuffaro, passarono dal controllo della Regione al fondo Fiprs (ex Pirelli-Re). Più il compenso di altri oneri accessori, per un totale di 110. Nessuno, tanto meno la magistratura, aveva avuto da eccepire sul profilo del Bigotti – che è stato anche console onorario della Repubblica del Kazakistan per la Regione Piemonte – la cui finanziaria di riferimento (la F.B.) era controllata per il 45% dalla Lady Mary II, una società con sede in Lussemburgo, noto paradiso fiscale. Immaginate voi la conclusione: i soldi sono spariti, ma a carico dell’imprenditore di Pinerolo, piemontese come Ginatta, non è partito un solo avviso di garanzia. Zero assoluto.