I 91 milioni pagati dalla Regione Sicilia a una società che ha i propri portafogli in alcune banche del Lussemburgo, per un censimento del patrimonio immobiliare che nessuno ha mai visto, sembravano l’apoteosi dello scandalo. Invece no. C’è dell’altro. Ad esempio, che il censimento, a distanza di dodici anni, è inutilizzabile e che la portata economica del disastro ammonta a 110 milioni, e non più a 91. A fare un po’ di luce è stata, ieri mattina, la commissione regionale Antimafia presieduta da Claudio Fava, che ha audito l’assessore all’Economia Gaetano Armao. Il verbale del colloquio, durato un’ora e mezza, è stato secretato. All’appuntamento erano presenti appena tre commissari, oltre a Fava: i grillini Antonio De Luca e Roberta Schillaci, oltre al deputato di Sicilia Futura, Nicola D’Agostino. Tra gli assenti giustificati Peppino Lupo (Pd), Stefano Pellegrino (Forza Italia) e Roberto Pullara (Popolari e Autonomisti), che si erano autosospesi dopo il coinvolgimento in alcune inchieste giudiziarie.

Il primo dato – incerto fino a ieri – è che il censimento esiste e che la password per accedere alla banca dati è stata ritrovata da qualche mese. Tuttavia, la banca dati è inutilizzabile, giacché il lavoro di valutazione svolto da Spi, che tiene conto delle rendite catastali di 15 anni fa, è inservibile e andrà aggiornato alla luce della richiesta di una “ricognizione straordinaria della situazione patrimoniale dell’Ente” inoltrata, qualche mese fa, Corte dei Conti. L’unico dato (ancora) utile è il numero e la dislocazione dei cespiti di proprietà della Regione. Non granché.

Tuttavia, come annunciato dai Cinque Stelle, l’audizione di Armao servirà ad allargare l’inchiesta e a risalire ai responsabili di questo sfacelo. I primi indiziati, non per forza in quest’ordine, vanno ricercati nel governo Cuffaro – che affidò il censimento a Spi nell’ambito di una vasta operazione immobiliare, che ha portato alla svendita di 33 immobili al fondo Fiprs – e nella ragioneria generale di Palazzo d’Orleans, per aver imposto condizioni capestro fra i criteri d’aggiudicazione della gara d’appalto e, successivamente, alla sostanza del contratto stipulato con la società di cui era amministratore delegato e capofila Ezio Bigotti, che attualmente si trova ai domiciliari con l’accusa di corruzione. A proposito, nel proseguo dell’inchiesta si proverà a capire perché una società mista pubblico-privata, partecipata al 75% dalla Regione e al 25% da una società consortile – la Psp Scarl – che comprende alcune società riconducibili all’imprenditore di Pinerolo (districate fra il Piemonte e il Lussemburgo), abbia indicato quest’ultimo alla governance. Almeno fino al giorno in cui, nel 2017, è intervenuto il liquidatore.

E’ uno dei tanti passaggi che restano, francamente, senza risposta. Così come l’assenteismo di Corte dei Conti e Procura della Repubblica. La prima, dopo aver prospettato un danno erariale da una sessantina di milioni da parte del governo e dalla ragioneria generale, non ha proceduto con atti esecutivi, lasciando che il procedimento cadesse in prescrizione. La Procura della Repubblica, invece, per non aver agito – otto anni fa – dopo aver ricevuto l’incartamento relativo a questa brutta storia. Nessuno si è mosso. E fino a ieri era rimasto fermo e immobile, pur avendo ricoperto un ruolo di primissimo piano nell’intera vicenda, anche l’assessore Gaetano Armao, che dopo aver pasticciato sulla storia della password, e aver minacciato querele nei confronti di chi si era limitato a riportare i fatti sulla scia dei resoconti parlamentari, si è arrogato il merito – una volta diventato assessore all’Economia del governo Lombardo, nel 2010 – di aver stoppato l’ultimo pagamento nei confronti di Sicilia Patrimonio Immobiliare.

Un altro dato che merita una lettura approfondita è quello relativo ai ricorsi, perché ci vanno di mezzo altri soldi. La Regione, qualche anno fa, fece causa a Spi per un lavoro “fatto male e in ritardo”, ma una sentenza della Corte d’Appello di Roma, maturata in seguito a un lodo arbitrale, la condannò a pagare ulteriori 12 milioni. A questa decisione Palazzo d’Orleans ha scelto di contro-appellarsi (tecnicamente si chiama “riconvenzionale”), ma nessun giudice si è ancora espresso. I 12 milioni vanno ad aggiungersi agli 80 fatturati a Bigotti, capofila del consorzio di cui sopra, per la sola attività di censimento, e ai 15 pagati a Spi per la rendicontazione e svendita dei 33 immobili del fondo Fiprs (poi acquistato da Pirelli Re), che la Regione decise in un secondo momento di ri-affittare. Aggiungendo un’altra manciata di milioni per oneri accessori, si arriva facile facile a 110. Com’è possibile che un censimento, con la data di scadenza scritta dietro, arrivi a costare tanto è un mistero che neanche Fatima.

Da un lato le inerzie investigative e d’indagine, dall’altro un incredibile e doloso spreco di risorse pubbliche. L’audizione di Armao, che offre una serie di spunti su cui intervenire, è solo il primo atto di una vicenda che da troppo tempo la politica e i suoi protagonisti avevano scelto di silenziare. Ma il silenzio non è bastato a stoppare – anzi ha foraggiato – l’incedere di un sospetto che toglie il sonno: che questi 100 e passa milioni, finiti in tasca a un avventuriero, abbiano alimentato una fabbrica di tangenti capace di coinvolgere persino alcune forze politiche del Nord Italia. E il sospetto solleva un interrogativo: come mai nessuna procura, né della Corte dei Conti, né della giustizia penale, ha mai pensato di seguire la scia dei soldi fino in Lussemburgo?

Ma sulla base di quanto accaduto ieri a Palazzo dei Normanni, il Movimento 5 Stelle è pronto a chiedere l’apertura di una vera e propria inchiesta per risalire ai responsabili che questa rapina l’hanno autorizzata e (forse) assecondata. Anche il presidente dell’Antimafia, Claudio Fava, ha confermato che “la Commissione intende approfondire: senza limitarsi agli esiti devastanti di questa operazione, ma per cercare di risalire alla fonte e capire come sia stato possibile che un’operazione dissennata come questa sia servita a garantire guadagni irripetibili ad alcuni soci privati”. Perché 110 milioni di euro, soldi dei siciliani, sono finiti in un paradiso fiscale. E fino a oggi è fregato a pochi, pochissimi.