A vederlo così, imbacuccato e infreddolito, con un berretto di lana bianca calato sulla fronte e un giubbotto di similpelle, puoi anche avere un attimo di smarrimento e chiederti: ma era questo il terribile boss dei due mondi, il sanguinario alleato dei corleonesi di Totò Riina, l’uomo che ha seminato morte e terrore con le stragi di mafia, il latitante che per trent’anni è sfuggito ai controlli agli arresti, alle retate? Sì, era lui: Matteo Messina Denaro, detto “’U siccu” perché di corporatura magra e snella. Lo hanno bloccato in una clinica privata di Palermo i carabinieri del Ros mentre lui cercava di nascondersi dietro i piccoli riti della vita quotidiana, di tirare dalla tasca un falso documento d’identità, di appannare il suo sguardo dietro un paio di occhiali scuri. E’ caduto nella trappola a causa dei malanni che si fanno particolarmente sentire quando la vecchiaia è alle porte e ogni caduta, come annotava Gongora, diventa un precipizio. Era successo anche a Bernardo Provenzano, il numero due dei corleonesi. Viveva alla macchia da oltre quarant’anni. Un giorno avvertì un dolore fitto e canagliesco alla prostata e da quel momento cominciarono i guai. Girando per medici e ospedali, tra medicazioni e cartelle cliniche, era pressoché impossibile non lasciare tracce. I cacciatori di teste lo sorpresero all’alba dell’11 aprile del 2006 nella masseria dei Cavalli, in una contrada desolata a pochi chilometri da Corleone. Lo avevano cercato per mari e per monti. Avevano fantasticato di una sua fuga nelle Americhe e di un suo rifugio dorato in chissà quale Eldorado. Era invece intabarrato tra le quattro mura, umide e scrostate, di un casolare di campagna. La sera prima aveva mangiato ricotta e cicoria.

Anche per Matteo Messina Denaro i cantori dell’antimafia avevano ipotizzato chirurgia plastica al viso, vita da Cotton Club, vestiti di alta moda e fughe a Dubai, negli Emirati, in Libano, persino in Messico. Gli attribuivano rapporti con altissime logge massoniche e complicità con gli immancabili servizi deviati. Lo consideravano un padrino consacrato al traffico della droga e al controllo degli appalti; credevano che fosse il padrone occulto di supermercati e pale eoliche, il tenutario di misteri inconfessabili, il regista di trame oscure e scellerate. Più che una primula rossa era un fantasma. Con cadenze ossessive e inesorabili gli arrestavano parenti, amici, conoscenti: tutti sospettati di favoreggiamento. Gli mettevano sotto torchio la madre, la sorella, il cognato. Castelvetrano, il cuore del suo regno, veniva cinta sistematicamente d’assedio: “Il cerchio si stringe”, annunciavano i procuratori chiamati a coordinare le indagini. Si mobilitavano questure, prefetture, caserme, commissariati, ma dentro il cerchio non c’era nulla. Solo buchi nell’acqua.

Poi, all’improvviso, la svolta. Come per Provenzano. Un tumore al colon, le microspie che catturavano lamenti e disperazione tra i familiari più stretti, le sedute di chemioterapia, l’accerchiamento all’alba della clinica “Maddalena” nel quartiere di San Lorenzo, a Palermo, l’irruzione. ‘U siccu dice di chiamarsi Andrea Bonafede, porge il documento, ma non c’è più niente da fare. La favola nera del latitante che si fa beffa dello stato si chiude qui. I carabinieri del Ros hanno fatto il colpo grosso. Onore al merito. La giustizia si gonfia il petto, la politica esprime compiacimento e soddisfazione, la gente di Palermo applaude, il Paese tira un sospiro di sollievo.

Per il Ros – Reparto operativo speciale – non poteva esserci riconoscimento più grande. Lo Stato ha vinto, la mafia ha perso. E in questa battaglia frontale un ruolo di primissimo piano lo ha avuto proprio il reparto di eccellenza dei carabinieri che, manco a dirlo, debuttò alla grande il 15 dicembre del 1993, sempre a Palermo, con la cattura di Totò Riina, detto “’U curtu”, che era il capo dei Capi di Cosa Nostra, il villano feroce e senza scrupoli che aveva raso al suolo le cosche palermitane di Bontade e Badalamenti, che aveva progettato con intelligenza luciferina l’attentato di Capaci e massacrato il giudice Giovanni Falcone, che aveva pure deciso la strage di via d’Amelio e fatto a pezzi Paolo Borsellino. I carabinieri avevano individuato la sua villa tra il verde del quartiere Uditore, dove viveva con la moglie, Antonietta Bagarella. Avevano pure identificato e pedinato il suo autista, Salvatore Biondino, e quando la Citroen ZX, con a bordo il boss, uscì dal garage e si avvicinò alla rotonda della Circonvallazione scattò il blitz.

Dopo trent’anni e un giorno, lo Stato celebra l’anniversario con un altro blitz, con un’altra operazione investigativa da manuale, senza pentiti né spioni. Con un altro successo dei Ros: l’arresto di Matteo Messina Denaro, il picciotto che era subentrato a Riina al vertice della Cupola mafiosa e che Riina diceva di amare come la luce dei suoi occhi. Una coincidenza, certo. Ma dettata da un miracolo che, per la vecchia guardia del Ros, ha il profumo del riscatto se non addirittura della rivincita.

E sì, perché gli uomini che trent’anni fa arrestarono Riina e mozzarono la testa al mostro che voleva piegare lo Stato, non hanno avuto purtroppo vita facile. Nessuno gli ha appuntato una medaglia sul petto come si fa con gli eroi. Sono stati invece inquisiti, sputtanati, processati. Sono stati appesi prima all’albero dei sospetti e poi all’albero della gogna. Con un cinismo da fare venire i brividi a chiunque. E con un’aggravante: sono stati inseguiti e perseguitati proprio da quei magistrati che dicevano di essere l’avanguardia della lotta alla mafia; i santi apostoli della verità e della giustizia; le truppe scelte inviate dal cielo in partibus infidelium per riconquistare una fetta dell’Italia alla legalità e alla convivenza civile.

Mario Mori, che da colonnello dei Ros aveva congegnato, seguito e consegnato alle patrie galere Totò Riina ha passato trent’anni della sua vita a salire e scendere le scale del Palazzo di giustizia di Palermo. Prima lo hanno accusato di non avere perquisito subito e per bene, dopo l’arresto, il covo dell’Uditore e di avere consentito che la moglie e gli accoliti del boss ripulissero ogni angolo senza lasciare né documenti né impronte. Con ciò insinuando il sospetto che con la scomparsa dei documenti era scomparsa anche la prova dei probabili legami del mammasantissima con i piani alti della politica e della finanza. Poi lo hanno accusato di avere avuto la possibilità di arrestare, dopo Riina, anche Bernardo Provenzano ma di averlo fatto scappare deliberatamente. E con ciò insinuando un altro sospetto: che le cortesie di Mori per il numero due dei corleonesi – catturato comunque anni dopo: nel 2006, come si è detto – erano dovute al fatto che il colonnello del Ros doveva sdebitarsi del fatto di essere arrivato a Riina non per meriti investigativi ma per una soffiata di Provenzano, diventato nel frattempo avversario e traditore del Capo dei capi.

All’inizio sembravano schermaglie tra poteri dello Stato: da un lato un gruppo di investigatori ardimentosi e legittimamente ambiziosi; dall’altro lato un gruppo di magistrati che, da custodi delle regole e dei limiti imposti dal codice di procedura penale, mal sopportavano l’eccesso di zelo e di intraprendenza. Schermaglie comunque fastidiose e che trasformavano passo dopo passo gli eroi in imputati: sentenza di primo grado, secondo grado, assoluzione definitiva. Ma è bastato aspettare il 2012 per capire che dietro le accuse a Mori c’era un piano attraverso il quale un gruppo di magistrati coraggiosi – a quel tempo si chiamavano così – intendeva consolidare il proprio prestigio e il proprio potere.

Antonio Ingroia, allora procuratore aggiunto di Palermo, aveva rispolverato un polveroso fascicolo con la scritta “Sistemi criminali”, istruito molti anni prima dal suo collega Roberto Scarpinato, oggi stimato e riverito parlamentare dei Cinque Stelle, e si inventò una “boiata pazzesca”: la fantomatica Trattativa tra alcuni settori deviati dello Stato e i vertici di Cosa Nostra. Un contenitore di liquami investigativi e retroscenismi campati in aria ma supportati da un pataccaro che rispondeva al nome di Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, un personaggio che negli anni Ottanta fu all’un tempo boss corleonese, boiardo democristiano e pure sindaco di Palermo.

Fregiandosi del nome del padre, Massimuccio – battezzato nel frattempo da Ingroia “icona dell’antimafia” e sbaciucchiato pubblicamente da Salvatore Borsellino, fratello del giudice assassinato in via D’Amelio – comincia a raccontare un suo romanzo, con fatti e circostanze inventate ma attribuite a Don Vito, il quale, dopo avere conosciuto il carcere, era già morto e non poteva dunque né confermare né smentire. Nacque così il processo del secolo. Quello che avrebbe dovuto riscrivere la storia d’Italia, fatta di complotti, di attentati e, soprattutto di compromissioni, sporche e indicibili, tra Cosa nostra e il potere politico, tra la mafia e le aspirazioni politiche di Silvio Berlusconi. Un processo dove l’elemento di unione tra le cosche e le stanze segrete dello stato non poteva che essere lui: Mario Mori, il comandante del Ros. Colpevole di essersi recato, nei giorni roventi delle stragi, a casa di don Vito Ciancimino per trovare una via – un suggerimento, una confidenza, un indizio – che gli desse la possibilità di arrivare alla testa del serpente e fermare il fiume di sangue che in quei giorni bagnava Palermo e spaventava l’Italia intera.

Le rivelazioni manipolate di Massimuccio diventarono parte sostanziale dell’inchiesta. Siamo già agli inizi del 2013. Ingroia chiede il rinvio a giudizio al Gip, Piergiorgio Morosini, e quando lo ottiene si dimette dalla magistratura; fonda un partito e scende in campo, in vista delle elezioni di giugno, come candidato alla Presidenza del Consiglio. Otterrà un misero zero virgola. Ma per tutta la campagna elettorale gira da una tv all’altra a rivelare i dettagli della Trattativa, rilascia interviste ai giornali sulle nefandezze della mafia e il doppio gioco degli apparati dello Stato che avevano ignominiosamente trescato e traccheggiato con i killer e i mandanti delle stragi.

Per Mori – ma anche per il generale Antonio Subranni, che gli era succeduto al comando del Ros, e per il colonnello Giuseppe De Donno – cominciava un calvario chiodato, infamante, crudele. Dal quale gli imputati non sono riusciti ancora a venire definitivamente fuori. Dopo cinque anni, sull’onda di una mastodontica campagna di stampa, rivolta ovviamente ai giudici popolari della Corte d’Assise, il processo di primo grado si è concluso con condanne pesantissime: undici anni di carcere per Riina e stessa pena per Mori che lo aveva arrestato. Poi, e siamo già nel settembre del 2021, arriva finalmente la sentenza di secondo grado che mette finalmente a fuoco un orizzonte di verità: Mori e gli altri ufficiali del Ros andarono da Vito Ciaincimino per utilizzarlo come confidente e non per avviare una trattativa con i padrini. Ma il generale Mori, che a maggio compirà 84 anni, aspetta ancora, assieme ai suoi compagni di sventura, il via libera della Cassazione. Sono i tempi della giustizia, bellezza.

Ieri, subito dopo la cattura di Matteo Messina Denaro, i massimi rappresentanti dello Stato, dal Quirinale a Palazzo Chigi, hanno detto che i carabinieri del Ros sono un motivo di orgoglio: per la loro professionalità e per il grado di sicurezza che sono in grado di garantire ai cittadini e alle istituzioni. Nell’operazione di Palermo hanno agito sotto la direzione del procuratore Maurizio De Lucia che, nel corso della conferenza stampa, ha avuto nei loro confronti un ringraziamento sincero e un elogio sottolineato, non a caso, più volte. Platealmente. Ma la testimonianza che forse riuscirà a lenire come un balsamo i dolori e le ferite del generale Mori è stata la presenza, accanto a De Lucia, del procuratore aggiunto Paolo Guido. Nei primi mesi del 2013, da sostituto, rifiutò di mettere la firma sotto l’azzardata richiesta di rinvio a giudizio predisposta da Ingroia. Un’altra coincidenza. Un altro filo invisibile di quella rete di miracoli che – da trent’anni e un giorno – accompagna l’azione del Ros.