Il ragazzo cresciuto a pane e mafia se ne andava in giro con una fotografia dentro il portafoglio. Credeva di essere abbastanza forte per reggere il peso del potere. In realtà sentiva il bisogno di portare con sé un amuleto che colmasse il vuoto dei suoi vent’anni. E così, all’occorrenza, Vincenzo Sorrentino tirava fuori l’immagine del padre Salvatore per mettere in chiaro per conto di chi stesse parlando. Storie di quel che resta di Cosa nostra, di un’infanzia mafiosa che nulla di buono lascia intravedere per l’età adulta. Storie di giovani che studiano da boss e vivono nel mito del passato. Un passato che li travolge. L’ultima pagina di cronaca arriva dal quartiere Villaggio Santa Rosalia. Un dedalo di stradine di fronte all’Università degli studi di Palermo, regno di Sorrentino senior, non a caso soprannominato “lo studentino”, cresciuto al fianco dei padrini oggi rinchiusi al fine pena mai. Qualche anno fa un collaboratore di giustizia lanciò l’allarme: Sorrentino rischiava di essere ammazzato. Lo avevano condannato, senza appello, per alto tradimento. Qualcuno aveva messo in giro la voce che era passato con i Lo Piccolo, potenti capimafia di San Lorenzo, tradendo il suo mandamento di riferimento, Pagliarelli. I carabinieri si precipitarono nel carcere dove Sorrentino stava finendo di scontare la condanna. Non si scompose, rifiutò la protezione dello stato (“gli ho detto, se ne vada, non ho niente a che dividere con nessuno”) e chiese quella del suo padrino, Settimo Mineo, l’anziano boss chiamato a presiedere la reunion della cupola scoperta, quasi in tempo reale, nel 2018. I dissapori furono archiviati se è vero com’è vero che Sorrentino si riprese il suo posto prima di essere di nuovo arrestato e affidarsi, così sostiene l’accusa, al giovane figlio per continuare a comandare dal carcere. Smistava gli ordini nel corso dei colloqui e delle videochiamate consentite durante la stagione del Covid per evitare che i parenti portassero il virus in carcere. Si dava un gran da fare nel regolare la vita nel sottobosco della criminalità.

“Vieni, ti faccio vedere la fotografia di mio papà”, diceva Vincenzo Sorrentino, cresciuto con un padre che entra ed esce dal carcere. Se necessario la postava su TikTok affinché raggiungesse una platea più vasta, come un qualunque ragazzo della sua età. E’ l’unica caratteristica che lo incasella nella Generazione Z. Curiosi, aperti, pronti ad esplorare il mondo, ipercritici su molte abitudini dei genitori che considerano antiquate. Non è il caso di Sorrentino jr, la cui scelta semmai sfugge a ogni dinamica sociologica. “Fuori non me ne voglio andare, voglio stare qui”, ripeteva al padre detenuto a Rebibbia. “A modo mio”, aggiungeva mostrando un attaccamento viscerale a tutto ciò che gli sta attorno. Avrebbe fatto bene a rifletterci, ora che anch’egli è finito in carcere con l’accusa di essere divenuto l’alter ego del padre, un capomafia a dispetto della sua giovinezza. Gli servirà molto più di quella foto, custodita come un santino che, se davvero le cose stanno come sono state ricostruite dagli investigatori, non è bastato a proteggerlo. I finanzieri monitoravano la sua vita con le microspie. Lo hanno seguito nelle trasferte per i colloqui, al rientro in nave, nella vita di tutti i giorni.

La sua è una storia sovrapponibile a quella di Francesco Caporrimo, figlio di Giulio, altro boss della nuova mafia che ha raccolto l’eredità dei Lo Piccolo, signori di San Lorenzo, periferia ovest di Palermo, prima che la città lasci il posto ai piccoli comuni della fascia costiera che si susseguono fino all’aeroporto intitolato a Falcone e Borsellino. “Guarda papà, mi sono messo il tuo giubbotto, mi sta bene”, disse il giovane durante un colloquio. Era un modo per annunciare al padre le sue intenzioni mafiose. Giulio Caporrimo fulminò con lo sguardo e con le parole quel figlio sfrontato e imprudente: “Toglitelo, lascia i miei vestiti nell’armadio e non li toccare più”. Fine della discussione. Che delusione per il ragazzo che, poco più che diciottenne, sperava di farsi largo. Contava sul fatto che il blasone di famiglia gli spianasse la strada. I più anziani si arrovellavano attorno alla domanda delle domande: “Chi se la deve prendere questa responsabilità?”. Suo padre, chi altro: “Digli che va a parlare con papà, se papà lo vuole mettere in mezzo, perché per quello che sappiamo noi, quando Giulio era fuori, a suo figlio non lo ha mai portato in giro a fare dei danni”. Papà pose il veto, che ha condizionato l’esito processuale. Risultato: Giulio Caporrimo condannato, ancora una volta, e il figlio assolto.

Di rapporti fra genitori e figli è piena la storia di Cosa nostra. Stesso percorso ma spesso destini diversi, a cominciare dai padrini corleonesi che conquistarono Palermo a colpi di Kalashnikov. “Mio padre non lo voglio toccato”, diceva Angelo Provenzano. “Tinto, buono… è stato un buon padre, è stato un padre meno buono, è stato sempre mio padre e non lo voglio toccato”, aggiungeva nel 2005, dieci mesi prima che il padre Bernardo venisse catturato nelle campagne di Corleone. Angelo ha la fedina penale immacolata, così come il fratello Francesco Paolo. Binu ha tenuto i figli lontani da Cosa nostra. Qualcuno avrebbe voluto sfruttare il loro cognome, anche solo per arginare le pretese dei nuovi boss. Un frangiflutti contro le intemperanze delle nuove generazioni. Niente da fare. Carmelo Gariffo, che di Provenzano è il nipote, spiegava che i suoi cugini erano stati tenuti fuori dai giochi “volutamente, perché mentre c’è stato mio zio presente, i suoi figli era giusto che si stavano a posto loro, e devono stare a posto, perché basta uno, non c’è bisogno di cento”. La stessa cosa non si può dire per i figli di Totò Riina. Giovanni in carcere ci resterà per sempre, colpevole di quattro omicidi, mentre Salvuccio di anni di detenzione ne ha scontati otto e mezzo per associazione mafiosa. Di recente si è rifatto vivo a Corleone. Il comune gli ha negato il rinnovo del documento d’identità. Il figlio del capo dei capi, seppure ufficialmente libero di stare dove vuole, è ospite indesiderato nel paese dove vive la madre. L’età media si abbassa nella Cosa nostra fiaccata, un giorno sì e l’altro pure, dagli arresti. Basterebbe guardare la sorte toccata ai parenti, ammazzati o sepolti in carcere, per capire che un altro mondo è possibile. Invece no, il destino è spesso scritto in un cognome a cui la nuova mafia si aggrappa per tentare di resistere. Qualcuno sopravvive spacciando droga e imponendo il pizzo persino agli ambulanti che vendono pane e panelle. Qualcun altro, più intraprendente, si guadagna i galloni del capo. Uno dei più carismatici è stato Leandro Greco, pure lui giovanissimo, cresciuto nel mito del nonno Michele, il “papa” di Cosa nostra, capomafia di Ciaculli. Quando il nonno è morto in carcere, nel 2008, il nipote aveva appena 18 anni. Ne ha conservato gelosamente l’anello d’oro con le iniziali. Lo teneva sulla scrivania, accanto a una bottiglia con un’etichetta pacchiana: il volto di don Vito Corleone e la scritta “Il Padrino sono io”. Roba che fa scena, ma diventa grottesca. Il giovane Greco sognava un ritorno al passato, a cominciare dalla convocazione della cupola – la prima dopo la morte di Totò Riina – sbiadita copia di quel che era stata. “U criaturi” (la piccola creatura), come lo chiamava Giovanni Di Giacomo, killer ergastolano del gruppo di fuoco di Pippo Calò, boss di Porta Nuova, a soli 24 anni godeva del rispetto dei più anziani, anche se qualcuno di tanto in tanto si chiedeva “ma se la spirugghia?”. Era davvero in grado di comandare? Chissà. Non ha avuto la possibilità di dimostrarlo. Lo hanno arrestato.

A volte sono i figli a tracciare la strada. Lo ha fatto Andrea Lombardo che viveva all’ombra del padre Francesco, boss di Altavilla Milicia, paese della provincia palermitana. Facevano tutto insieme, anche gli omicidi. Poi un giorno capitò che un sacerdote, don Filippo Sarullo, che era stato parroco in paese, e l’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice portarono ai detenuti la reliquia di Santa Rosalia, patrona dei palermitani. “Ho sentito qualcosa dentro e ho deciso di collaborare con la giustizia”, avrebbe spiegato qualche mese dopo Lombardo jr nella sua prima apparizione in aula da collaboratore di giustizia. “Al pentito è giunta la parola di Dio”, raccontò l’arcivescovo di fronte al profondo ravvedimento. Che finì per estendersi quando il giovane rivolse al padre un accorato appello. “Riappropriati della tua identità, questo mondo non ti appartiene. Sono tuo figlio, e normalmente sono i padri che danno i consigli, ma se posso permettermi, affidati alla giustizia, ammetti le tue colpe, credi in coloro che operano nella giustizia”. Fu convincente visto che il padre ha seguito il suo esempio sulla strada del pentimento.

Ci sono figli che non si affrancano. Hanno scelto da che parte stare e lo rivendicano. La loro decisione non cambia, neppure di fronte al sangue rimasto sull’asfalto in una mattina di inizio estate. Quello di Giuseppe Incontrera è stato l’ultimo omicidio commesso a Palermo. Un uomo in scooter lo affiancò mentre andava in bicicletta a pochi passi dal castello della Zisa, gioiello di architettura araba edificato per volontà del normanno Gugliemo I. Uno, due, tre colpi. La vittima ebbe il tempo di girarsi per guardare in faccia il suo assassino. Poi si accasciò al suolo. Era un boss in ascesa, gestiva il traffico di droga in una città che brucia fino a 30 chili di cocaina al mese. Domanda e offerta si incrociano alla perfezione. Per il delitto c’è un condannato reo confesso. Ha spiegato di avere fatto fuoco per vendicarsi dopo una banale lite per strada. Gli investigatori ci credono poco, ma il processo di primo grado ha stabilito che la mafia nulla c’entra. Agli atti dell’inchiesta resta il drammatico racconto del figlio venticinquenne. Fu il primo ad accorrere in soccorso del padre. Era appena uscito da casa dei genitori e, mise a verbale nell’immediatezza dei fatti, “notavo alcune persone che urlavano il nome di mio padre”. Giuseppe Incontrera era “disteso sull’asfalto accanto alla sua bici”. Il figlio tentò di rianimarlo, ma “non riusciva nemmeno a parlare”. Sarebbe deceduto poco dopo il suo arrivo in ospedale. “Mio padre aveva molti conoscenti, ma non so dirvi se tra questi vi fossero pregiudicati”, tagliò corto il giovane. Mentiva, visto che pochi giorni dopo sarebbe stato arrestato assieme alla madre. Nell’elenco dei fermati c’era anche il nome del padre che di pregiudicati ne conosceva parecchi. Era pure diventato consuocero di uno dei nuovi boss che regnano nei quartieri dove si cresce ancora a pane e mafia. E si muore a colpi di pistola. Emanuele Burgio aveva 25 anni. Sgomitava nelle viscere della città dove si spaccia droga. Lo uccisero alla Vucciria. Anche stavolta niente aggravante mafiosa, ma una banale lite per uno specchietto rotto. La notizia arrivò in carcere al padre di Burgio, Filippo, uomo di fiducia di un altro giovane boss, Gianni Nicchi. Lo chiamavano “u picciutteddu”. Aveva 26 anni quando lo arrestarono. Era rimasto latitante per alcuni anni, alimentando il mito dell’astro nascente spedito in missione negli Stati Uniti da Provenzano. Ha smesso di essere un ragazzo in carcere. Oggi ha 42 anni e c’è chi aspetta con ansia la sua scarcerazione in una Cosa nostra nostalgica del passato che non c’è più.