Melodramma moderno, recita la locandina de “La capinera” che il Teatro Massimo Bellini di Catania s’è preso carico di far debuttare in prima assoluta, iniziativa di certo meritoria per un ente lirico. Ma sta proprio in questa definizione, meglio, in quell’aggettivo, l’equivoco di fondo dell’operazione ricavata dal celebre testo di Giovanni Verga. Perché se melodramma dev’essere che melodramma sia, senza definizioni temporali di sorta. Perché comunque l’opera di Gianni Bella è proprio quella di un autore di successo della nostra musica pop che ha voluto calare la sua creazione dentro la forma-melodramma con insistenza, con caparbietà, quasi con cocciuta determinazione. Si potrebbe dire a forza. Si fosse preso una maggiore libertà rispetto a certi modelli, forse “La capinera” avrebbe trovato un più ampio respiro.

La musica resta comunque (lo scrivo da melomane) l’elemento migliore dell’impresa. C’è molto del Dna melodico-ritmico dell’autore di diverse hit “leggere” dagli anni ’70 in poi, ci sono richiami tra tardo Ottocento e primo Novecento (il Puccini di “Manon”, se l’orecchio non inganna), un astuto dispiegarsi di arie però troppo rimpallate da un personaggio all’altro, pezzi chiusi e “a solo”, atmosfere cupe alternate a valzer musette. Se si perdona qualche ingenuità, il tutto piuttosto piacevole.

E’ sul fronte drammaturgico che vien fuori più di un problema. Intanto perché la struttura è un po’ sbilenca, ad un primo atto che ha un certo movimento narrativo ne segue un secondo staticissimo. Una disomogeneità che fa implorare o il ricorso a un rimescolamento o a decisive sforbiciate. Per Giuseppe Fulcheri – autore del libretto – non sarà stato facile bignamizzare Verga ma tant’è. Le liriche di Mogol, poi. Che si concedono metriche spericolate (solisti e coro ringraziano), qualche aulicismo che pare ripescato dai tempi di “Al di là”, sprazzi di modernismo (questo sì) azzardatissimi: far cantare alla matrigna di Maria, la protagonista, “questa situazione è destabilizzante” in pieno Ottocento verghiano confina con l’antimateria.

Da grande specialista qual è, Geoff Westley ha lavorato di fino per “arrangiamenti, orchestrazione ed elaborazioni” e il risultato sarebbe egregio se non si avesse l’impressione che sul podio Leonardo Catalanotto (specie nel primo atto) elabori più d’accetta che di bacchetta forse per accrescere un’enfasi che già c’è.

Per l’allestimento si cercava ovviamente la grandeur ed è saltato fuori il nome del pluriOscar Dante Ferretti che come scenografo-costumista crea la sua bella atmosfera, come regista invece inciampa in più di un luogo comune del verismo, in alcune gratuità (d’accordo, le novizie saranno pur contente di tornare temporaneamente nelle famiglie causa epidemia di colera, ma dietro le grate del convento come hanno imparato tutti quei vezzi e quelle mossettine da bal tabarin?), in qualche superflua simbologia (c’era bisogno di mettere un alter ego danzante a fianco del già debordante personaggio che incarna il succitato colera?).

Ugole di primordine (Cristina Baggio, Andrea Giovannini, Francesco Verna, Sonia Fortunato, Sabrina Messina, Carlo Malinverno), voci sicure e svettanti (anche per sopravvivere al volume del golfo mistico), Orchestra (ancorché pompata a mille) e Coro dignitosissimi.

Successone, acclamazioni per tutti, per il compositore un affettuoso tifo da campanile. Per chi volesse, repliche fino a martedì 18.