Una miscela esplosiva dopo le Europee. La Lega di Matteo Salvini, dopo aver riciclato a destra e a manca pur di creare una nuova classe dirigente “specchiata” anche in Sicilia, sta pensando di rivolgersi a Francantonio Genovese, già condannato a 11 anni in primo grado per i “corsi d’oro” e gli scandali della Formazione Professionale. Se la storia del Carroccio nell’Isola avesse bisogno di un controspot per eccellenza, eccolo. Un uomo della vecchia politica, con un passato nel Partito Democratico e un presente (traballante) in Forza Italia, pronto a saltare sulla zattera del Capitano. Che a questo punto, in attesa di risultati confortanti dalle urne del 26 maggio, si prepara a rimpolpare la squadra sicula, rinforzandola con un ras delle preferenze. Poco ligio alle appartenenze, e, nonostante i guai giudiziari, sempre in campo quando conta.

Alle ultime Regionali Genovese ha fatto eleggere il figlio Luigino, 21enne, all’Ars (di cui è diventato in fretta anche il paperone). Non come un deputato qualsiasi, ma come il migliore di tutti (18 mila voti). Ma da qualche tempo i rapporti si sono consumati e il buon Luigino, per interposta persona, non sembra più disposto a osservare i giochi di potere del partito che l’ha consacrato. In famiglia, a fare la voce grossa, è papà Francantonio. Sono suoi i contatti e le amicizie, tra cui quella con il sottosegretario Giancarlo Giorgetti, che contano. E’ a lui che aspira Matteo Salvini il quale – al netto di nuove leve e giovani carismatici – ha estremo bisogno di qualcuno che gli permetta di consolidare il consenso, attività che Genovese ha sempre onorato grazie al suo esercito. Non importa il partito. Importa essere Francantonio.

E Francantonio le sue scelte sembra averle già fatte. Non ha apprezzato, ad esempio, l’asse tra Forza Italia e il sindaco di Messina, Cateno De Luca, che alle Europee ha candidato il proprio assessore Dafne Musolino nelle liste azzurre. Così i Genovese hanno fatto calare sulle elezioni un silenzio quasi surreale che fa tanto rumore dalle parti dello Stretto. Da almeno un paio di mesi padre e figlio sono in predicato di cambiare sponda. Ma visto che Pd uscirono precipitosamente nel 2015, il centro lo hanno provato in tutte le salse e la Lega è il nuovo che avanza, beh, forse meglio salire sul Carroccio. Un’ipotesi per niente avveniristica, dato che uno dei candidati per Strasburgo più apprezzati dalla famiglia messinese al prossimo giro elettorale è Angelo Attaguile, che Salvini ha lanciato all’ultimo respiro al posto di Fabio Cantarella, giovane assessore di Catania nella giunta di Pogliese.

Anche Genovese, come Pogliese, potrebbe scegliere di andarsene da Forza Italia. Non ne farebbe una ragione di stato visto il passato variopinto. A 18 anni il buon Francantonio spicca il volo fra i giovani della Democrazia Cristiana, salvo confluire nel Partito Popolare quando la Dc di disintegra. Tra i popolari rimane per un bel pezzo, prima di scegliere la sinistra moderata e l’esperienza della Margherita, con cui ottiene la prima elezione in assemblea regionale nel 2001. Nel giro di pochi anni conquista uno scranno di prestigio nell’economia del partito, sedendo al fianco di Rutelli (mentre fa il sindaco a Messina). Ma è il nuovo corso del PD che lo affascina. Così nel 2007, dopo la vittoria di Walter Veltroni al congresso, diventa segretario regionale “dem”. Un passo deciso verso la sinistra, che nel giro di pochi anni lo porterà a conquistare ventimila voti (il maggior numero di preferenze per un candidato in tutta Italia) alle parlamentarie. Alla Camera dei Deputati entra due volte con gli stessi abiti, prima che nel 2014, in seguito alle note vicende giudiziarie, gli venga “requisito” il seggio coi voti (anche) del Pd, che acconsente all’arresto e alla misura cautelare da parte dei giudici di Messina.

Alla fine di quell’anno Francantonio diventa un moderato e assieme al cognato Franco Rinaldi – con il quale condivide la passione per la politica e i drammi della giustizia – e alla deputata Maria Tindara Gullo, siede a tavolino con Gianfranco Micciché, che aveva ripreso da poco le redini di Forza Italia in Sicilia, e sceglie di aderire ai gruppi parlamentari forzisti (sebbene da Messina non possa muoversi, avendo l’obbligo di dimora). La potenza dei Genovese va oltre la giustizia che lo assilla: i suoi interessi nella formazione professionale, gli enti dati in gestione in familiari e affini, le pressioni politiche esercitate per orientare le scelte degli apparati regionali, gli costano dal 2013 un lungo processo per associazione a delinquere finalizzata e peculato e truffa. Che toglie alla famiglia quell’aurea immacolata di stima e di prestigio, facendola sprofondare negli argomenti da bar delle male lingue. A maggio 2014, col voto favorevole del Pd e a scrutinio palese (è la prima volta che accade qualcosa del genere a Montecitorio), comincia la sua giornata in Parlamento e la finisce al carcere di Gazzi, a Messina, costretto a costituirsi. Ci rimane una settimana, poi fa la spola per qualche tempo coi domiciliari, fino alla scarcerazione di novembre 2015, coi termini per la custodia ormai scaduti. Nel 2017 la condanna a 11 anni, che di recente il sostituto procuratore generale di Messina, in attesa dell’appello, ha chiesto di portare a 12.

Francantonio “frequenta” i palazzi del potere, ma non si muove da casa. E lì che istruisce il figlio in politica, è lì che s’è visto recapitare nuove accuse. L’ultima, risalente al marzo di quest’anno, è una richiesta di 5 anni e 4 mesi per corruzione elettorale e per i rapporti con la mafia, nella fattispecie con i fratelli Pernicone – presunti affiliati alle cosche – che curavano gli interessi della sua campagna elettorale. E poi – dannato senso della famiglia – subito dopo l’elezione di Luigi all’Ars, ecco un’altra iscrizione nel registro degli indagati, stavolta per evasione fiscale e riciclaggio. Un cursus honorum che al Ministro dell’Interno, impelagato com’è nella difesa di un sottosegretario (Siri) che in passato ha patteggiato per bancarotta fraudolenta, evidentemente non provoca pruriti.

Ma Salvini, come e più di Francantonio Genovese, è il re dell’impossibile, il reclutatore senza scrupoli, l’arruffa-tutto. L’uomo politico in grado di fare buon viso a cattivo gioco, di imbracciare il mitra e di pubblicare su Facebook fotografie coi gattini. Un capo del Viminale che elogia le torrette e il filo spinato di Orban e prova a farsi spazio nel Partito Popolare europeo, da cui Orban stranamente proviene. “Indipendentista in Veneto, nazionalista a Roma, repubblicano a Washington e comunista a Pyongyang” per citare un passaggio dell’articolo che Salvatore Merlo, ieri, gli ha dedicato su “Il Foglio”.

Al diavolo la coerenza: “Noi non vogliamo fossili, ossia tutti quei politici che, avranno anche parecchio consenso, ma non hanno combinato nulla di buono” diceva in un’intervista a Buttanissima Igor Gelarda, attuale proconsole di Salvini nell’Isola. Che reclamava pure “persone pulite e ineccepibili sotto il profilo morale”. Ma se Siri a Roma può rimanere – e ha soltanto un patteggiamento alle spalle – che male può fare un Francantonio a Messina, fra l’altro in vesti non ufficiali? D’altronde quello che contano sono i voti. La capacità di mimetizzarsi. Di fare politica. Salvini e Genovese, in questo, sono due gocce d’acqua: hanno il consenso, sono abili strateghi e si godono il potere.