Ma su trecentomila e passa catanesi, non ce n’era uno che potesse rappresentare Forza Italia nella giunta di Enrico Trantino? E’ una delle tante domande senza risposta, mentre la campagna elettorale scorre via. Oggi e domani si vota in 595 comuni italiani (Brescia il più grande), fra due settimane toccherà alla Sicilia: in palio la poltrona di sindaco in quattro città capoluogo, fra cui Catania. Dove il presidente della Regione, leader indiscusso dei berlusconiani, ha deciso di affiancare all’avvocato Trantino, scelto dalla coalizione, il suo “fedelissimo” Marcello Caruso. Un assessore palermitano. Evitando così di scatenare una guerra fra due primedonne: da un lato Marco Falcone, commissario provinciale del partito e assessore all’Economia “dimezzato” (per la recente nomina di Armao come esperto in materia); dall’altro Nicola D’Agostino, di recente approdo dopo la militanza renziana.

A Catania Forza Italia fa il suo primo check-up completo dopo il cambio ai vertici del partito, che ha portato all’emarginazione di Gianfranco Micciché e all’affermazione di una nuova classe dirigente. Schifani, pur con tutti gli oneri di un impegno gravoso a Palazzo d’Orleans, è riuscito a ritagliarsi lo spazio necessario per scalare Forza Italia, e dare una spallata anche a Tajani. In questa ottica va inteso l’ingresso di Giancarlo Cancelleri, che proprio a Catania sperava di diventare sindaco, mettendo in campo una lista civica sostenuta dai Cinque Stelle. Quando Conte gli negò la possibilità, bastarono due minuti per fare le valigie e approdare alla “famiglia di valori”, quella di Berlusconi e Dell’Utri, su cui aveva sputacchiato a lungo. “Seppur nel merito qualche volta abbia attaccato Forza Italia, c’è chi nel Movimento 5 stelle ha fatto di peggio”, si è giustificato Schifani. Non gli resta che cooptare Di Battista…

Scherzi a parte, Cancelleri è stato motivo d’imbarazzo per il partito che l’ha accolto. Lo è meno la Chinnici, che non ha mai sputacchiato su alcuno, e servirà a ripulire l’immagine un po’ sgualcita di un partito che si dice garantista, e, da oggi, si erge sull’altare dell’antimafia. Ma questi innesti difficilmente muoveranno un voto sulla scena catanese, dove a recitare la parte del leone sarà ancora Fratelli d’Italia. Trantino tira, ed è stato un buon compromesso per evitare di ritrovarsi nel bel mezzo di una campagna elettorale con un candidato indagato per turbata libertà degli incanti (Razza) o addirittura agli arresti (Arcidiacono). Non sarà facile gestire l’eredità di Salvo Pogliese, che in questi mesi ha tenuto al guinzaglio la città e l’amministrazione comunale col suo processo per peculato (condanna ridotta in appello); e non sarà facile archiviare questa tormenta giudiziaria – ma ci sono anche parecchie questioni etiche, a partire da Cannes – che rischia di svuotare il vademecum delle buone intenzioni, specie sul piano della legalità e della disciplina, redatto da Meloni. Ma FdI e la destra catanese rimangono forti e affiatati, al di là di ogni ragionevole inghippo.

Sarà interessante misurare la consistenza numerica della Lega di Luca Sammartino, che ha dovuto rinunciare alla candidatura della sua compagna, l’on. Valeria Sudano, per il bene della coalizione. Ma il vero motivo d’interesse è la tenuta del centrodestra. Detto che a Catania la vittoria non sembra in discussione, le incognite maggiori riguardano Ragusa e Trapani, dove Mimmo Turano, l’altro esponente leghista del governo Schifani, non è riuscito a garantire l’appoggio del suo gruppo a Maurizio Miceli (FdI), e per questo potrebbe pagare pegno al primo “tagliando”. Mentre a Siracusa il candidato forzista Sebastiano Messina dovrà cercare di insidiare il sindaco uscente Francesco Italia e resistere alla rimonta del ribelle Edy Bandiera, che con la sua fuoriuscita dal partito ha fatto registrare il primo smottamento dell’era Caruso-Schifani. Per capire se sarà consistente, e potrà avere degli emulatori, bisognerà attendere l’esito delle urne.

Se il centrodestra piange, le opposizioni non sorridono. Cateno De Luca, che a un certo punto sembrava costituire un pericolo per la sopravvivenza di Schifani e del suo governo, si è appiattito sui mille progetti che lo coinvolgono: dalla creazione di una piattaforma nazionale di ‘Sud chiama Nord’ (con Letizia Moratti e altri), passando per l’ennesima candidatura a sindaco in una città, Taormina, che non dovrebbe togliergli il sonno. All’Ars, invece, ha preferito lanciare in avanscoperta il giovane deputato Ismaele La Vardera, che fra un test del capello e l’altro, prova a fare il solletico al governo: da un lato con la richiesta pressante di dimissioni all’assessore Volo, dall’altro elogiando lo spirito di Alessandro Aricò sul fronte delle Infrastrutture. Per altro i parlamentari di De Luca si sono cuciti addosso l’etichetta più infame, quella di ‘collaborazionisti’, per essere usciti dall’aula e aver agevolato l’aumento delle indennità dei 70 deputati. Nei comuni i deluchiani si muovono a briglie sciolte: talvolta col Pd e coi Cinque Stelle, talvolta con il centrodestra. In questo modo privi la tua comunità di riferimenti stabili e duraturi, ma Scateno – che è uno stratega eccelso – avrà le sue buone ragioni.

Altri pezzi delle opposizioni sembrano invece irrecuperabili. Il voto di domenica 28 e lunedì 29 maggio potrebbe segnare l’ennesimo de profundis per il Pd, che non sembra avere grosse velleità nei principali comuni, mentre a Trapani ha disperso le proprie energie su candidati diversi. A Catania la sfida di Maurizio Caserta rappresenta la coda di un tentativo andato male (con Emiliano Abramo), ma tuttavia – complice la Corte dei Conti – è bastato a disinnescare la tentazione di Enzo Bianco di riprovarci. Da solo. Dall’insediamento di Schlein, però, non è ancora arrivata una parola di chiarezza e responsabilità sulla crisi del partito siciliano, come evidenziato dal democristiano Calogero Pumilia sulle nostre pagine: “In una delle regioni più importanti – ha detto l’ex deputato riferendosi al Pd – non può rimanere ibernato com’è ormai da tempo. A cominciare, com’è normale, dalla celebrazione dei congressi, da quelli dei circoli a quello regionale. Deve tornare a far politica, a confrontarsi al suo interno non più solo o prevalentemente su questioni di potere, deve riallacciare i rapporti con i gruppi sociali, con il volontariato, con la cultura e con queste realtà deve elaborare il suo progetto. Alla vigilia di elezioni amministrative in 128 comuni con 4 capoluoghi, risulta difficile identificare la posizione, i programmi e le alleanze”.

Una incertezza che accomuna i dem ai Cinque Stelle, che a Ragusa, ad esempio, rischiano di aver vanificato le chance di vittoria presentandosi in solitaria (contro il campo progressista). Ma se il Pd un’organizzazione, gracile, può almeno vantarla, il M5s ha appena ottenuto da Giuseppe Conte le indicazioni sui nove coordinatori provinciali. Fin qui c’è stato un unico referente regionale, Nuccio Di Paola, costretto a fare la trottola da oriente a occidente per evitare che il partito deragliasse. Alla fuoriuscita di Cancelleri per il momento non ne sono seguite altre e, sebbene con alcuni limiti, i Cinque Stelle restano la voce più critica nei confronti del non-governo Schifani. Sembrano quelli meno disposti agli inciuci. I più attenti alle polemiche e agli scandali. Gli agitatori di piazza che ogni tanto, al netto degli eccessi forcaioli, servono a scuotere le coscienze di chi s’è abituato fin troppo ai giochi di potere.  Il voto nei Comuni, però, è un’altra storia.