Le parole di Gianfranco Miccichè a ‘La Stampa’, poi smentite dal diretto interessato, dimostrano una cosa (al netto del torpiloquio): che il centrodestra non è mai stato unito. Miccichè è l’unico a sollevare la questione, mentre gli altri contenders – a torto o ragione – hanno trovato in Roberto Lagalla la foglia di fico dietro cui nascondere le proprie, legittime ambizioni. Passeggere. Che sia Musumeci il problema è fin troppo ovvio: l’atteggiamento tenuto nei confronti dei partiti in questi quattro anni e mezzo di legislatura, hanno fatto propendere 3/4 della coalizione (per dirla con Salvini) a fare resistenza (per dirla con Tajani) di fronte alla paventata ipotesi del bis. L’episodio di Palermo, e la decisione di convergere sull’usato sicuro (Lagalla) e rinviare la questione a dopo i ballottaggi, è l’esempio plastico di una chiusura che solo Giorgia Meloni, immersa nei suoi pensieri romani, non è in grado di capire (tanto meno di accettare).

L’uscita di Gianfranco Micciché è servita a scavare ulteriormente il solco di fronte al bis del governatore. Il coordinatore di Forza Italia ha detto di essere disposto a rinunciare alla carica più ambita – quella di presidente dell’Ars – pur di non dare il sazio ai sostenitori nel nemico. “Non vincerebbe neanche contro un gatto”, si era lasciato scappare nel corso della trasferta di Verona per il Vinitaly. Il concetto espresso a ‘La Stampa’, invece, ha toccato altre corde: “Lui è pur sempre un fascista catanese” e “Palermo è troppo nobile e intellettuale per il fascismo”. Ma dietro la pugnalata ideologica, poi ritrattata, si celano messaggi più “nobili”: “Musumeci odia partiti, parlamento, stampa”. E’ una delle critiche mosse al presidente della Regione quando si infuriò con Sammartino, augurandosi l’intervento di “altri palazzi”, per aver chiesto il voto segreto su un emendamento alla Finanziaria; o quando ebbe a definire “scappati di casa” i sette deputati della maggioranza che non avrebbero voluto mandarlo al Quirinale per l’elezione del Capo dello Stato. I partiti hanno ingoiato a lungo le decisioni a senso unico del presidente, gli insulti al parlamento, le bizze e le prepotenze del suo cerchio magico. E solo Micciché – con modi e toni rivedibili – ha sboccato per tutti. Ma nessuno, del centrodestra degli scontenti, ha osato contraddirlo.

Miccichè s’è preso la scena, è rimasto in prima linea, ha masticato amaro e rimarcato le differenze. Ha praticato il lavoro sporco senza cedere al politicamente corretto (che non gli si addice). Non teme ritorsioni (politiche), anche se denuncia di aver subito angherie. Il suo “colore” eccessivo, però, l’ha fatto finire sotto assedio. Oggi il coordinatore di Forza Italia è impegnato su tre fronti di battaglia: oltre a quello con il governatore (che ieri ha preferito non rispondere agli insulti), deve fare i conti con Fratelli d’Italia. In un’intervista recente a Buttanissima aveva parlato di rapporti “straordinariamente buoni” con tutti i rappresentanti siciliani del partito, in modo particolare Carolina Varchi. Ma l’ultimo attacco rivolto alla Meloni (“Da fascista qual è si è accodata a La Russa, fascista siciliano come Musumeci”), ha fatto storcere parecchi nasi.

La Russa, tirato in ballo, ha usato toni distensivi: “Sono certo che Gianfranco è stato travisato, infatti nessun esponente politico cosciente e non disturbato potrebbe sottoscrivere quel testo contrario ad ogni logica umana e politica”. Ma allo stesso tempo, “l’articolo impone un pronto chiarimento politico, reso necessario anche dall’improvvido coinvolgimento nell’articolo di Silvio Berlusconi”. Ci arriveremo. Miccichè ha detto inoltre che “la signora Meloni ci vuole distruggere tutti” e che “vuol rompere col centrodestra”. Non soltanto in Sicilia. Con questi presupposti, e con una stima ormai fiacca (corroborata dal tentativo di trascinare il centrodestra verso un destra-centro e di voler decidere a Roma sulle candidature siciliane), non sarà facile ricostruire un clima di fiducia. Soprattutto se all’orizzonte si staglia la decisione più complessa: quella sul candidato del centrodestra alla Regione. “Musumeci? Non passerà mai”, è la previsione del vicerè berlusconiano.

Resta un ultimo nodo difficile da sciogliere. Il più difficile, forse. La convivenza forzata coi detrattori di Forza Italia. Che sono lì e fanno rumore, usando l’artiglieria pesante (Marcello Dell’Utri) quando serve. Da Gaetano Armao e Marco Falcone, che nella sua intervista Miccichè definisce “ascari”, c’è una minoranza che smania dalla voglia di raccogliere i cocci della sua gestione. Ci avevano già provato apertamente, destituendo la figura del capogruppo all’Ars (ma il regolamento non li ha assistiti). Armao, dopo aver tenuto la Finanziaria nel cassetto per oltre quattro mesi, è apparso sensibilissimo sulle questioni politiche: “I toni incontinenti usati dal presidente dell’Assemblea regionale nei confronti del presidente della Regione, come già in passato nei confronti miei e di assessori, sono scomposti ed inadeguati, oltre che totalmente falsi. È costituzionalmente inaccettabile che egli si esprima con queste volgarità dal ruolo che ricopre”.

Lo stesso Falcone, qualche ora dopo l’intervista incriminata, ha rivolto a Micciché delle parole di fuoco: “Stentiamo a credere che un quotidiano autorevole possa inventarsi dal nulla interi, pesantissimi, virgolettati. In ogni caso, al di là di tutto, è inammissibile vedere il commissario di Forza Italia in Sicilia non solo accostato a una pioggia di insulti agli alleati, con giudizi maldestri e offensivi motivati dalla semplice appartenenza geografica alla provincia di Catania, ma addirittura scadere in un indecente turpiloquio”. E ancora: “Miccichè appare incattivito, in preda allo squilibrio politico, circostanze che lo rendono sempre meno idoneo ai ruoli che ricopre. Ma la cosa che maggiormente colpisce è il suo maldestro tentativo di mettere in cattiva luce il presidente Berlusconi che, invece, ha sempre dimostrato garbo e rispetto verso tutti”.

Berlusconi, per chi non se ne fosse accorto, resta il numero uno, oltre che padre nobile, di Forza Italia. Ha abdicato in parte alla sua schiera di consiglieri, ma fino a qualche settimana fa, ricevendo Micciché a Villa Grande, gli ha confermato le chiavi della leadership. Nonostante i tentativi “catanesi” di indebolirlo, con la complicità dei palermitani Armao e Dell’Utri (l’ultimo dei musumeciani). Sarebbe partita dal Cav., secondo le ultime letture, “la mossa del cavallo” per sbarazzarsi di Musumeci: cioè chiudere l’accordo su Lagalla a Palermo per archiviare una volta per tutte le pretese di Nello alla Regione. Non è detto che ci sia riuscito, almeno fin quando la vecchia coalizione ruggente non si ritroverà attorno a un tavolo per affrontare l’argomento.

Il primo incontro dovrebbe tenersi mercoledì, a Palermo, per parlare di programma e stabilire le regole della campagna elettorale per le Amministrative. Il passo avanti di Cascio per la carica di vicesindaco, l’altro giorno, ha irritato il resto dei partiti. E ogni anelito di realpolitik rischia di sfasciare gli accordi. Le parole di Micciché hanno avuto l’effetto detonatore. Ma che la coalizione fosse già in frantumi, ridotta a quel punto per un’impuntatura incomprensibile, lo sanno tutti da mesi.