La corsa al dopo-Musumeci, nei ranghi del centrosinistra, è cominciata a Termini Imerese. Dove la neo compagine giallorossa – dal “rosso” un po’ più marcato rispetto a Roma, per la presenza dei Cento Passi e l’assenza di Italia Viva – ha giocato un brutto scherzo alla coalizione di governo. L’elezione di Maria Terranova, secondo Claudio Fava, “non è una vittoria fra le tante, ma un modello”, e il modello “non è la somma delle sigle, ma il sentire comune”, che adesso gli abili condottieri di questa battaglia vorrebbero esportare a Palermo. Ma, fuori dalla retorica, il presidente dell’Antimafia dice parole nette: “E’ anche questione di persone. Non sono tra quelli che sostengono ‘prima facciamo i programmini e poi ce la giochiamo’. Penso che occorra trovare chi rappresenta il senso ultimo di questa sfida. Tutti sono degni, ma non tutti possono essere simmetrici rispetto allo scopo”. E allora capiamo il senso di questo scopo.

Per cosa si batte questo “campo largo” che voi, assieme al Pd e ai Cinque Stelle, avete sperimentato alle ultime Amministrative?

“Noi non vogliamo soltanto governare, ma chiudere una stagione durata molti lustri, in cui la politica è stata rappresentata da un trasversalismo malato, dal trasformismo peggiore, e ha ospitato sullo stesso palco dirigenti di ogni area che ambivano soltanto alla conquista del potere. Quest’idea malata, autoreferenziale, tutta legata al ceto politico, a Termini è stata sconfitta”.

Secondo lei chi ha vinto le elezioni comunali di domenica scorsa?

Quelli di sempre. Cioè un sistema di potere clientelare radicato e diffuso, che di volta in volta trova simboli, capitani e condottieri diversi, ma di fatto è collegato a un’idea di consenso che si costruisce conquistando o acquistando. E’ stata una tornata elettorale che riconferma la centralità di Raffaele Lombardo che, nonostante le sue vicende giudiziarie, continua a fare il maître à penser, piazzando uomini nelle campagne elettorali, nelle amministrazioni e nei governi. Una visione che risponde a logiche di tipo padronale e clientelare”.

Ci faccia un esempio.

“La vicenda di Enna, su cui sta indagando anche la magistratura, è esemplare: il cognato di Lombardo è direttore di un’azienda sanitaria nella quale improvvisamente, come i funghi dopo una notte di pioggia, spuntano candidati tra i consulenti, gli appaltatori, i primari, gli infermieri, e tutti, come una straordinaria coincidenza del fato, si trovano al servizio della stessa coalizione. Questo sistema è il vero ostacolo a un processo di modernizzazione sociale”.

Quindi non è più una questione di destra o di sinistra.

“No. Come spesso accade in Sicilia, ho visto le piazze piane e incuriosite per ascoltare le performance di Salvini, e le urne tragicamente vuote. Ciò che resiste è quest’idea antica di potere, di una politica intesa come servitù, che costruisce la propria forza su un patto di scambio obbligato. A questo bisogna contrapporre non solo e non tanto una coalizione, ma anche un diverso modo di sentire e di agire. Qualcosa di più impegnativo e antagonista della somma di alcune sigle”.

Ma lei a capo di questa coalizione, proiettandoci alle Regionali del 2022, ci starebbe?

“Se lo spirito è questo, sì. Se è vogliamo costruire una coalizione liberatrice, post-ideologica e in grado di parlare a tutti, che non sia addizione di numeri e di ceto politico, sono assolutamente pronto”.

Cosa contiene il momento della proposta?

“Il tentativo di liberare la Sicilia da lacci e lacciuoli, dalle obbedienze, dall’idea di una sanità che debba essere occupata da amici e parenti, o che non abbiamo diritto a un ciclo dei rifiuti moderno, perché succubi di un monopolio in mano a pochi privati. Così facendo, non solo si manda a casa Musumeci e il centrodestra, ma ci si assume la paternità di una sfida moderna, reale, concreta che vuole cambiare la qualità delle funzioni sociali e politiche di questa terra”.

Dove tutto questo ha funzionato è Termini, una città di 30 mila abitanti. Crede sia facile estendere il contagio a tutta la Sicilia?

“Il tema non è capire chi sia meglio tra Fava o Musumeci, o che vogliamo governare noi al posto loro. E, piuttosto, trasferire una cultura, un’idea, una responsabilità di governo che è agli antipodi di quella che la Sicilia ha conosciuto fino ad ora”.

I suoi Cento Passi hanno ottenuto un’ottima affermazione elettorale in molti comuni, da Barcellona a Marsala. Come se lo spiega?

“Laddove siamo stati presenti, ad eccezione di Agrigento, abbiamo ottenuto un riscontro straordinario. E tutto questo senza aver mai provato a organizzare un partito, bensì un modello di azione politica che nei territori qualcuno ha riconosciuto e provato a far proprio. Abbiamo trovato risorse umane eccellenti, che non sempre provenivano dalla politica tradizionale, ma dall’impegno vero, quotidiano, che non passa soltanto attraverso la militanza nei partiti. Il consenso, ove si è vinto e dove si è perso, è stato significativo, proprio perché alle spalle non c’è una struttura radicata, solidificata, onnipresente. E’ uno stile, un sentimento che proveremo a diffondere a tutto il centrosinistra. Credo sia possibile”.

Dopo il flop del click day, i suoi colleghi del Movimento 5 Stelle all’Ars hanno – provocatoriamente – compilato una lettera di dimissioni per conto dell’assessore Turano. Al posto di Turano apporrebbe la firma?

“La prima cosa che farei è proporre, assieme al presidente Musumeci, un click day che spenga, assieme alle luci del giorno, le funzioni istituzionali di entrambi. Una situazione drammatica per la sorte delle imprese è stata gestita in maniera tragicomica. Ma come sempre accade quando si evidenzia una falla nel sistema, si finisce per accusare qualcun altro, in questo caso la Tim. Questo modo di cercare spalle più basse su cui scaricare le proprie responsabilità è la cosa che meriterebbe, più di ogni altra, un atto di decenza: cioè le dimissioni. Sbagliare capita a tutti, ma cercare nei dintorni dello sbaglio qualcuno su cui scaricare la colpa è una perdurante pratica di questo governo che con la politica c’entra poco. C’entra con la necessità di affrontare in termini di verità e di responsabilità le cose che nella vita possono accadere. L’assessore Turano non ci sta riuscendo”.

Con l’abolizione del click day, alle imprese andranno le briciole.

“Il bicchiere quasi vuoto è sempre meglio di un bicchiere vuoto. Ma questa elemosina è solo un’aspirina di fronte a una malattia che avrebbe bisogno di diagnosi e cure assai più robuste”.

La Finanziaria, di fatto, è ancora ferma a distanza di sei mesi.

“Operatori turistici, artigiani, bonus per le famiglie… Io ricordo i toni da parata romana con cui sono state annunciate queste conquiste social, della serie “abbiamo i soldi e li spenderemo fino all’ultimo centesimo”; ma ho anche memoria del modo in cui non è stata spesa una lira e il silenzio è calato come un sudario su questa malinconica stagione. Non è solo il mancato funzionamento di una procedura amministrativa, ma anche il modo in cui la politica diventa una sorte di gioco napoletano di società. Ti presenti sulla ribalta, annunci di avere compiuto i miracoli, di avere moltiplicato pani, pesci e contribuiti, e poi sparisci dalla scena. Queste sono le cose che intristiscono di più di questo governo”.

Quando accadono questi blackout, il richiamo a Sicilia Digitale è quasi automatico. Ma la realtà racconta di un carrozzone in disarmo e svuotato di competenze.

Sicilia Digitale è una scatola vuota. Fa parte della collezione di scatole vuote, esposte su una vetrinetta, che il governo Musumeci aveva promesso di rottamare il giorno del proprio insediamento. E invece sono ancora lì, con il corredo di ricchi consigli d’amministrazione, collegi dei probiviri, revisori dei conti. Rappresentano uno dei tanti stagni di sottogoverno in cui fare galleggiare i propri famigli, i propri amici, i propri sodali politici trombati alle elezioni. Enti inutili che drenano risorse e producono zero”.

Ai tempi dell’accordo con Roma per la dilazione del disavanzo in dieci anni, il Consiglio dei Ministri incluse nel pacchetto di riforme “obbligatorie” anche una razionalizzazione della spesa a cominciare dalle partecipate. E’ rimasta lettera morta.

“Bisognerebbe rottamare non soltanto le partecipate, ma anche coloro che nelle partecipate hanno trovato un gettone di presenza per ricompensare le loro amicizie politiche. E questo forse è un po’ più complicato”.