L’aborto del click day, che avrebbe dovuto assegnare il Bonus Sicilia alle imprese danneggiate dal lockdown, è la conferma che il processo di digitalizzazione dei sistemi informatici della Regione è ancora all’anno zero. E serve a poco addossare le responsabilità, come hanno fatto politici e dirigenti, ai fornitori scelti per l’occasione: cioè Tim. La vecchia Telecom Italia avrebbe dovuto gestire la piattaforma in cui, nelle scorse settimane, sono state caricate 56 mila domande, a fronte di 125 milioni disponibili. E velocizzare il processo di assegnazione ed erogazione delle somme (senza guardare al merito, ma alla velocità di un click: ma questa è un’altra storia…). Anche il sistema più evoluto, alla prova dei fatti, si sarebbe ingolfato, creando problemi di sicurezza. E per la verità molti imprenditori, già alla vigilia, avevano riscontrato il ‘data breach’: entrando sulla piattaforma per rileggere la domanda, spesso è capitato di trovarsi di fronte ai dati sensibili di altre aziende. La Regione, che inizialmente aveva smentito questo genere di anomalia, ha dovuto ammettere che il click day è stato cancellato per alcune falle nel sistema di sicurezza. E così, adieu.

I soldi, come comunicato dall’assessore Turano in conferenza stampa, verranno riassegnati a tutti coloro che si erano registrati al sito di SiciliaPEI, e non soltanto ai più veloci. Ovvio, però, che la ripartizione sarà di poche briciole: Sicindustria ha calcolato un contributo da 2.200 euro a impresa. Un’elemosina che non placa i morsi della fame. Ma non può finire qui: se da un lato, la Regione ha annunciato una richiesta di risarcimento danni nei confronti di Tim, oltre alla revoca del contratto, dall’altro non ha fatto “mea culpa” sul sistema adottato – il click day, appunto – che già nell’epoca rivoluzionaria e disgraziata di Rosario Crocetta, aveva causato danni incalcolabili per il Piano Giovani. Ossia un bando rivolto a una corposa platea di beneficiari, dai 25 ai 35 anni, che si misero in gioco per ottenere uno dei 1.600 tirocini retribuiti, a 500 euro al mese per 12 mesi, presso le aziende disposte ad “assumerli”. Con la Regione, ovviamente, in qualità di soggetto attuatore.

Era l’estate del 2014 quando l’ex sindaco di Gela imperversava con la sua goliardia amministrativa. Insieme all’assessore alla Formazione professionale dell’epoca, Nelli Scilabra, la più giovane in giunta, misero sul piatto venti milioni e si affidarono alle cure di Italia Lavoro, un’agenzia governativa (oggi Anpal) che nel frattempo aveva ottenuto dalla Regione qualche milioncino per la fornitura di servizi e un pugno di assunzioni per gli “amici” del sottogoverno. Il bando prevedeva un incrocio fra domanda e offerta, ma avrebbe ottenuto il tirocinio soltanto il disoccupato più “veloce”, quello che si sarebbe collegato per primo alla piattaforma. Alla prima finestra del 14 luglio, già di per sé molto problematica, si erano iscritti in 20 mila. Alla successiva, il 5 agosto, più del doppio.

Fu una giornata sciagurata, un flop dalle dimensioni epiche. Per inciso: la piattaforma era gestita dalla società ETT, la stessa che di recente ha “rallentato” l’erogazione della cassa integrazione in deroga per decine di migliaia di siciliani e che Musumeci, stanco di esternalizzare i servizi a ogni giro di valzer, aveva deciso di liquidare prima della scadenza naturale del contratto (dicembre 2020). Quella volta, sei anni fa, il mancato funzionamento della piattaforma, provocò un cortocircuito all’interno della stessa amministrazione regionale. La dottoressa Anna Rosa Corsello, dirigente dell’epoca, decise di indire un terzo bando (revocato in seguito per vizi di forma) e arrivò allo scontro con l’assessore Scilabra. La prima, la Corsello, finirà indagata per abuso d’ufficio e costretta a rassegnare le dimissioni. La seconda, invece, dovette stoppare una carriera politica promettente, andando a “svernare”, qualche tempo dopo, al “Fondo Pensioni”, da cui sceglierà di dimettersi dopo aver ricevuto delle minacce. Segno che un click day può rovinare una carriera.

Non è ancora dato sapersi cosa accadrà al tridente Musumeci-Armao-Turano. Fin qui l’unica evidenza è che il presidente della Regione non si è assunto, ancora una volta, alcuna responsabilità politica, dissertando la conferenza stampa dei colleghi di governo, dati in pasto all’opinione pubblica. E oggi, dal trono di Ambelia (dove scatta la nuova edizione della Fiera Mediterranea del cavallo), esulterà per l’espansione turistica della Sicilia. Mentre i siciliani, che dei cavalli e delle bicilette non sanno più che farsene, continueranno a bollire di rabbia. A causa di una macchina regionale stantia e usurata, che a sette mesi dall’inizio di questa tragica pandemia, non ha sganciato un euro per garantire sollievo e lavoratori e imprese. Anche questa, però, rischia di diventare un’altra storia…

Restando al tema del digitale, il flop day ha avuto una coda polemica. Ci sono almeno un paio di interventi, da parte di un paio di gruppi politici dell’Assemblea regionale, che meritano una considerazione. Il primo è quello dei deputati di Attiva Sicilia, gli ex grillini, che hanno presentato un ordine del giorno per impegnare il governo regionale ad affidare in futuro la progettazione e la gestione dei sistemi informatici a Sicilia Digitale spa, società in house della Regione, come, fra altro, prevede già la normativa regionale. L’altro intervento è quello di Nuccio Di Paola, deputato del Movimento 5 Stelle, che in aula, attaccando Armao, ha detto più o meno così: “Al paragrafo 5.2 di Agenda Digitale, adottata da questa giunta con la delibera n.116 del 2018, c’è scritto che la progettazione di qualunque sistema informatico in capo alla Regione, ma anche le verifiche tecniche e l’assistenza, deve essere fatta da Sicilia Digitale. Perché non è accaduto?”.

L’assessore all’Economia si è difeso spiegando che al momento Sicilia Digitale non ha un contratto di servizi con la Regione – l’ultimo, che ammonta a poco più di 5,5 milioni annui, è scaduto il 31 dicembre –, e in assenza di quello è sprovvista delle “abilitazioni” necessarie per svolgere determinate mansioni. Per questo il governo sarebbe andato in deroga rispetto alla normativa vigente. Eppure, martedì pomeriggio, l’Amministratore unico della società partecipata – l’ex generale della Guardia di Finanza, Carmine Canonico – ha spiegato in commissione Bilancio, all’Ars, che Sicilia Digitale negli ultimi due anni ha organizzato la bellezza di 18 click day. “Non mi dica che non se n’era accorto…” scherza Di Paola al telefono. In effetti no. Per l’onorevole del M5s, che non maschera lo sconcerto, è “come se per fare una strada tu scegliessi una ditta (Tim), ma nessuno si occupasse del progetto, della verifica tecnica e del collaudo finale. In un mondo normale ci si scandalizzerebbe. Ma il dubbio che non mi dà pace è un altro: quanti software vengono concepiti in questo modo? Chi le gestisce queste commesse? Quali sono le competenze di Arit, ossia l’autorità regionale per l’innovazione tecnologica, che sta a monte di queste decisioni?”.

Rimettere insieme i tasselli non è facile, ma l’aspetto più succulento del discorso è quello che riguarda Sicilia Digitale. Si tratta, oggi, di una società in house, a totale partecipazione pubblica, la cui mission originaria è lo svolgimento di tutte le attività informatiche di competenza delle Amministrazioni regionali. Nel 2001, al momento dell’istituzione, è però una società “mista”, a partecipazione pubblico-privata. Il 51% è in mano alla Regione, il restante 49% è del socio privato Sicilia e-Servizi Venture scrl, selezionato attraverso una procedura selettiva comparativa, e che di fatto diventa da subito il braccio operativo della società, incaricato della formazione del personale. Ma la società si trasforma molto presto in una scatola vuota, a uso e consumo della politica, che ci piazza all’interno gli amici e gli “amici degli amici” senza alcun tipo di competenza tecnica (e ovviamente senza concorso). Tanto che tutta l’attività legata alla predisposizione dell’hardware e alla manutenzione e gestione dei software, è subappaltata da Sicilia e-Servizi al socio privato, che drena risorse e conserva il know how. Fino alla sua fuoriuscita.

Ciò che rimane, oggi, di Sicilia Digitale, è una pletora di dipendenti “non qualificati” che Crocetta, l’ex assessore Baccei – legatissimo alle politiche di spending review, anche molto rigorose – e Ingroia, l’ex pm nominato amministratore unico della società, finiscono per licenziare e (poi) riassumere attraverso una mega transazione collettiva. Peccato che di questi “reduci” nessuno abbia le abilità informatiche richieste dall’amministrazione che infatti, con poche eccezioni, preferisce esternalizzare i servizi. Come nel caso della cassa integrazione in deroga, qualche mese addietro. E del click day.

A riprova dell’inutilità di Sicilia Digitale, che in tanti vorrebbero riesumare per dare un senso alla sua esistenza, c’è un passaggio nell’ultimo Defr, il documento di economia e finanza regionale, firmato dall’assessore Gaetano Armao: “Per rafforzare le leve di azione di Agenda Digitale – in uno con il piano di razionalizzazione delle partecipazioni regionali – è allo studio una ipotesi di concentrazione societaria tra Sicilia Digitale S.p.A., Interporti S.p.A e Parco Scientifico e Tecnologico S.C.p.A. (…) finalizzata alla creazione di una società in house in grado di progettare e gestire l’infrastrutturazione fisica e digitale della Regione siciliana, unitamente alla gestione aggregata degli acquisti di beni e servizi”. Che c’azzecchi Sicilia Digitale con la SIS, che nasce per la realizzazione di due interporti a Catania e Termini Imerese, è davvero un mistero.

Però un collegamento c’è: e riguarda il personale. Un autentico bacino di voti e di clientele di cui nessun governo al mondo vorrebbe/potrebbe privarsi. Basti pensare che una delle prime manovre del governo Musumeci-Armao, appena insediato, fu la stabilizzazione degli “albisti”, cioè il personale proveniente da tutte le società dismesse, per i quali è stata prevista l’assunzione alle dipendenze della Sas (la Servizi Ausiliari Sicilia): con un contratto che è peggio di un part-time, 12 ore e 50’ mensili, ma in tempo utile per evitare il blocco delle assunzioni previste dal Testo unico che ha introdotto l’obbligo del concorso anche nelle società partecipate. Ma non l’avevamo già sentita da qualche parte?