Ce lo ripetiamo da anni. Nella politica italiana c’è un problema di selezione della classe dirigente. Un deficit di “capitale umano”, strutture, formazione. Non si sa bene da dove iniziare, ma se la scuola del PD si chiama “Pier Paolo Pasolini” non sarà facile uscirne. La creatività politica italiana non si spiega e non si apprende ma si nutre anzitutto di invenzioni televisive.

Se per Repubblica il berlusconismo comincia con Drive-In, se il renzismo cresce dentro la Leopolda, l’asse Salvini-Di Maio è stato pianificato, allevato e coccolato nei talk-show di La7.

La Gabbia è la nostra ENA. Al posto di Chirac, Giscard d’Estaing, Emmanuel Macron ci ha dato Claudio Borghi, Paolo Barnard e il filosofo antimondialista, Diego Fusaro. Formidabile megafono senza contradditorio del grillismo, vetrina interminabile di Matteo Salvini che lì provava e riprovava la lista dei ministri no-euro (“all’economia sono indeciso tra Borghi e Bagnai”), il programma di Gianluigi Paragone è stato la piattaforma di governo che ha anticipato nomi, liste e contatti di questi giorni. Come nei peggiori incubi orwelliani, oggi sfilano davanti ai nostri sguardi increduli il voto del contratto di governo on-line e le ultime stagioni della Gabbia.

La formazione della classe politica populista è una formazione permanente, perché dove non arrivano le parlamentarie sul web, ci pensano Floris, Giletti, Formigli e Paragone che già prima delle elezioni si candidava a fare “l’uomo del dialogo tra M5S e Lega”.

Chiusa la Gabbia si è aperto il Senato. Se per la Francia lepenista e ultragauchista l’ENA è una “fabbrica di potere”, è perché non hanno mai visto il palinsesto di La7. Il training populista di Paragone è esemplare. Ex-pupillo di Bossi, ex-direttore di Rai2, animatore del “Villaggio Rousseau” a Rimini dove incoronò “Giggino O’ Presidente”, autore di pamphlet molto incazzati con la finanza, l’Europa, le banche, guru incontrastato dei talk-show anti-euro, ma soprattutto leader e mente della band “Gli Skassakasta”, il Paragone degli inizi era molto diverso dal rocker anti-vitalizi che apre le puntate in jeans strappati, stivaletto e “Fender Stratocaster” sotto la cinta.

Alla fine degli anni Zero, ai tempi di “Malpensa, Italia”, sembrava uscito da un congresso del Psi. Toni moderati, completi impeccabili, bretelle sgargianti, occhiali riflessivi. Poi la metamorfosi. Mentre il grillismo si incravattava, Paragone si liberava di ogni rimando alla “casta” e tornava tra la gente. “Non posso più rifugiarmi dietro il paravento dell’essere giornalista”. Uomo di confine tra la flat-tax e il reddito di cittadinanza, Gianluigi Paragone è uno spirito libero, un conduttore scomodo, tra i pochi ad aver avuto il coraggio di dire che “la Juve in Europa perde perché legata troppo al potere”. I suoi modelli sono Celentano, Vasco Rossi, Zygmunt Bauman, Davigo. Un pantheon ideale per un governo chiamato a “fare la storia”, come ha spiegato Di Maio.

Nel suo ultimo libro, Paragone spiega che il “No alla globalizzazione è un No a un mondo dove la ricchezza è nelle mani di élite ingorde e antidemocratiche”; un mondo dove le regole “sono andate oltre la liquidità di Bauman”, qualsiasi cosa voglia dire. Spiega che solo i no “aiutano a crescere”. E se il lettore pensa al Pil, Paragone lo frena subito. Ce l’ha coi “No che i nostri nonni dicevano ai loro figli”, perché i genitori di oggi dicono troppi “Sì”, e si vede com’è andata a finire. Difficile dargli torto. Nel 2013, festeggiò su Twitter i cinquantamila iscritti in meno all’università: “Finalmente il mito della laurea viene messo in discussione, con tutto il carrozzone accademico!».

Cinque anni dopo, il paese europeo col più basso numero di laureati manda al governo due politici non laureati. Il ché di per sé non vuol dire niente, ci mancherebbe. Se non che la democrazia rappresentativa funziona benissimo. Di sicuro, meglio di quella diretta. Come diceva Floris esattamente un anno fa in una puntata di Ballarò: “Lei Di Maio non ha bisogno di laurearsi, tanto ora diventa Presidente del Consiglio”.

(Articolo di Andrea Minuz per “Il Foglio”)