E’ probabile che il governo si trovasse al bagno, come hanno provato a spiegare i deputati-assessori Grasso e Cordaro per giustificare l’ultima defaillance sull’esercizio provvisorio (“C’è stata un’incomprensione sul numero degli iscritti a parlare, altrimenti saremmo stati in aula”); ma è molto più probabile che il governo, questo governo, non esista più. Forse non è mai esistito. Anche il presidente della Regione, Nello Musumeci, ieri pomeriggio ha disertato l’aula che in due anni di legislatura gli ha procurato soltanto delusioni. Lasciando la sua maggioranza sola, abbandonata al proprio destino, coi soliti franchi tiratori in agguato. Solo che stavolta i franchi tiratori non c’entrano. Il voto si è consumato alla luce del sole, con scrutinio palese: hanno vinto gli altri per 28 a 27. Non è più una beffa, ma un chiaro segnale.

Il Movimento 5 Stelle e il Partito Democratico hanno dato a Musumeci l’ennesimo avviso di sfratto. Bocciando l’articolo 1 del disegno di legge che avrebbe permesso a mamma Regione di tornare a spendere fino al 31 marzo, sebbene in dodicesimi, ossia partendo dallo schema del Bilancio di previsione 2019: ne avrebbero beneficiato alcune categorie di precari (Lsu, Resais ed ex Pip), i forestali, gli operai dell’Esa e i teatri, puntualmente con l’acqua alla gola. Ma in un testo che per caratteristiche e antonomasia doveva essere snello, e garantire poche soluzioni (ma chiare), sono state rinvenute somme sospette e contraddizioni latenti, che hanno convinto le opposizioni a opporsi. Col rischio – calcolato – di paralizzare tutto.

La maggioranza, come spesso le è accaduto, ha sottovalutato i problemi, non ha ponderato bene il rischio e – peggio – ha fatto male il suo lavoro. Si era illusa che l’ok della commissione Bilancio, la settimana scorsa, avesse smussato gli spigoli e intenerito il cuore degli avversari. Ha presentato un pastrocchio che si sperava di liquidare in tempi rapidi per concentrarsi sul resto (la vera Finanziaria) e aderire agli “obblighi contrattuali” stipulati con Roma in cambio della spalmatura in dieci anni del disavanzo. Ha sperato che anche Pd e Cinque Stelle preferissero la logica emergenziale all’amor proprio, che si voltassero dall’altra parte. Si sbagliavano. I grillini avevano annusato l’inganno, e spiegato che non si trattava di un esercizio provvisorio, bensì di un “collegato preventivo”, come l’ha definito il capogruppo Giorgio Pasqua durante la discussione in aula, rievocando la stagione fallimentare dei cinque “collegati”, poi ridotti a tre, e in vari momenti infilzati dall’impugnativa del Consiglio dei Ministri.

Nella redazione del Bilancio manca una logica. La stessa che ha convinto la Corte dei Conti, in sede di parifica, a definire “approssimativa” la manovra del governo. Gli insegnamenti, però, non attecchiscono. Non si impara mai dagli errori. E i problemi si sono ripresentati più gravi di prima. La soppressione dell’articolo 1 fa venire meno la legge stessa. E questo è un guaio che di riffa o di raffa verrà superato. Ciò che non scomparirà mai, invece, è la precarietà di un governo che non ha ancora lasciato traccia dopo due anni. Che si appella al passato per coprire le proprie inefficienze. Che non si presenta compatto in aula, pur sapendo di non avere una maggioranza stabile. Che non ha il coraggio di guardarsi allo specchio, e agire di conseguenza. Magari facendo cadere qualche testa. L’arte del provvisorio applicata all’esercizio provvisorio ha determinato lo sconquasso.

Musumeci non c’era, e s’è risparmiato una buona dose d’imbarazzo, o una sfuriata delle sue. Ma non potrà più appellarsi al voto segreto e alla modifica del regolamento, come ha fatto dopo la sconfitta sui rifiuti (che di fronte alla debacle di ieri appare quasi un inciampo). Non gli resta che agire. Questo governo si è lasciato alle spalle troppe questioni irrisolte: dalla presenza dell’assessore all’Economia e vice-governatore Gaetano Armao, cioè il vero artefice di ogni mossa legata ai conti, e il maggiore interprete di un muro che per troppo tempo ha separato le ambizioni del governo da quelle del parlamento; passando per un rimpasto che avrebbe restituito all’esecutivo l’ebbrezza della ripartenza, magari riequilibrando i rapporti di forza che sono venuti meno. Dall’ultimo intervento – l’ingresso di Messina al posto di Pappalardo – sono nati un paio di gruppi parlamentari (Ora Sicilia e la Lega) e tutti chiedono il conto. Da dieci mesi, inoltre, Musumeci tiene per sé l’interim dei Beni culturali, come se parchi e musei fossero semplici caselle del Monopoli, e non settori strategici da cui far ripartire l’Isola.

Inoltre, quello di Musumeci è un governo che si distingue per i suoi silenzi: non ammettendo le responsabilità degli assessori trafitti dallo scandalo dell’eolico, giocando in difesa sui rifiuti, pasticciando sui rapporti coi signori delle discariche. E’ un governo che si limita al bullismo amministrativo, sbagliando su tutto il resto. E praticando l’arte del “non dire”, come si evince dalla mancata reazione al giudizio di parifica della Corte dei Conti: i magistrati contabili sono ancora in attesa di tutti i documenti finanziari richiesti nel corso della lunga istruttoria dello scorso agosto, quando costrinsero gli uffici a riscrivere due volte il rendiconto e raccomandarono all’assessore all’Economia degli aggiustamenti che non sono mai arrivati. Però è un governo che mostra i muscoli con Roma, dopo aver beneficiato della sua clemenza e della sua spalmatura: niente cure di cavallo, ha detto Armao, “lo Stato dia alla Sicilia quanto le spetta”. Forse con un interlocutore più autorevole non ci sarebbe bisogno di specificarlo.

La sconfitta di ieri, e quello che essa determina, toglie a Musumeci l’ultimo alibi: il voto segreto. Ma ne introduce un altro: quello della semplice distrazione che, stando a Cordaro e Grasso, ha determinato la bocciatura dell’esercizio provvisorio (i distratti erano addirittura sette: oltre ai due assessori, non hanno partecipato al voto i forzisti Mancuso e Papale, Gennuso e Rizzotto di Ora Sicilia e Figuccia dell’Udc). Lo ha detto anche Armao, con l’ultimo pavido tentativo di salvare capra e cavoli: “Nessun problema, si tratta solo di un errore che può accadere nella dinamica parlamentare”. Come se il destino di una terra martoriata, che sopravvive da due anni senza una riforma degna, e da qualche mese col blocco “totale” della spesa (tranne che per le obbligazioni di legge) possa rimanere legato ai bisogni fisiologici di qualche deputato. Una teoria quasi un po’ offensiva. L’ultima frontiera della mala fiura.

MUSUMECI: SOLO UN INCIDENTE DI PERCORSO

La soppressione dell’esercizio provvisorio votata ieri dall’Assemblea regionale siciliana “è un incidente di percorso”. Lo ha affermato Nello Musumeci, presidente della Regione, parlando a margine di un convegno sulle infrastrutture organizzato dalla Cisl a Firenze. “I numeri c’erano – ha spiegato Musumeci -, tre erano a fumare, uno era andato” in bagno, “mi sembra assolutamente un fatto non politico. Dovesse diventare politico nei prossimi giorni, è chiaro che il ragionamento si porrà su un terreno diverso. Ma poi è il bilancio provvisorio, quindi a chi farebbero danno? La verità è che ancora qualcuno non ha capito che bisogna inseguire gli obiettivi che la gente vuole. Qualcuno è convinto che l’elezione a deputato regionale sia un punto di arrivo, e non hanno capito che invece è un punto di partenza. Ma lo capiranno presto”.