Scottarsi con le istituzioni. E’ quanto successo, e continua a succedere, al Movimento 5 Stelle, alle prese con il tabù enti locali. Non serve spingersi sino ai limiti romani di Raggi, o alle difficoltà piemontesi di Appendino, per averne prova. La Sicilia è un ottimo laboratorio politico, che ha affidato ai grillini il governo di parecchi comuni, oltre a percentuali bulgare alle elezioni del 4 marzo. Ma succede spesso, spessissimo, che lo scarso feeling dei pentastellati coi palazzi della politica, produca situazioni burrascose dai tratti surreali.

Corleone ne è un ottimo esempio. Perché non capita molto spesso che un candidato sindaco, ad appena due giorni dalle elezioni, riesca a “bruciarsi” venendo a patti con il nipote – incensurato – del boss Bernardo Provenzano, pubblichi una foto che non c’entra nulla con la campagna elettorale (semmai a procurarsi qualche titolone sulla stampa), e “rompa” i rapporti col vice-premier in persona. Sollevando, a prescindere da quanto sia delicato il tema dello stato di diritto e da chi abbia torto o ragione, un vespaio inutile. E’ un brutto pasticcio che fa perdere la bussola anche all’elettore più integralista. E connota un tratto distintivo della nuova politica che avanza: professarsi illibati e distribuire patenti di moralità non ti rende un buon amministratore. E, come in questo caso, neppure un amministratore.

Corleone, dove Pascucci è arrivato secondo (ma Di Maio ha già chiesto ai probiviri di togliergli il simbolo), è l’emblema delle cattive figure che il M5S confeziona quando lambisce il potere. Ma la Sicilia è piena di casi del genere. A pochi chilometri da Corleone sorge Bagheria, comune che ha ospitato per qualche tempo la latitanza dello stesso Provenzano, che in una villetta di via Sofocle – si sospetta – abbia organizzato l’attentato alla vita del giudice Borsellino. E dove il sindaco è un giovanotto che risponde al nome di Patrizio Cinque. Una premessa è d’obbligo: il sindaco Cinque si è autosospeso dal Movimento 5 Stelle dopo l’apertura di un’inchiesta a suo carico e, soprattutto, un’intercettazione telefonica in cui rivelerebbe atti d’ufficio a un parente in odor di abusivismo (è accusato anche di falso ideologico e turbata libertà degli incanti).

Ma lo stesso Cinque, che proviene dalla cultura a 5 Stelle, ne ha combinate così tante che è impossibile elencarle tutte. Il Consiglio comunale – questa è freschissima attualità – ha presentato una mozione di sfiducia, spiegando le motivazioni in 17 pagine di relazione. Fra le colpe imputate al sindaco (una moltitudine) rientra l’atteggiamento equivoco proprio sull’abusivismo. Bagheria è pieno di costruzioni fuorilegge e il primo cittadino, qualche anno fa, si rese protagonista di un siparietto con le Iene che lo accusavano di vivere in una casa che non aveva ricevuto alcuna concessione di sanatoria (il suo assessore all’Ambiente fu costretto a dimettersi per lo stesso motivo, per lui arrivo l’agognato documento con una tempistica sospetta).

Cinque, che nel 2014 aveva incentrato la propria campagna elettorale sulla lotta all’abusivismo, un tema privilegiato per i giovani amministratori rampanti, di recente ha acquisito un ecomostro sulla spiaggia del Sarello, siamo sempre a Bagheria, con una società (la Nuova Poseidone srl) di cui fa parte anche una componente pentastellata della commissione Territorio e Ambiente alla Camera. E di questo ecomostro, che nasceva ristorante, vorrebbe farne un resort con tutti i confort. Ma sempre su quella spiaggia dove costruire non si può.

Il moralismo piagnone della scuola a 5 Stelle – anche in questo caso il Movimento ha pensato di “farlo fuori” alla prima sciocchezza – tocca il suo apice a Gela, dove il primo cittadino Domenico Messinese, ridotto sul “lastrico” da una maggioranza inesistente, si è dimesso dal lettino dell’ospedale dove era finito a seguito di un malore accusato mentre in aula si discuteva la sua mozione di sfiducia. Storia del 7 settembre scorso.  Con questa mossa anomala, più per il contesto che per la forma, Messinese ha evitato la gogna. Ma era stato il Movimento a metterlo alla porta subito dopo l’elezione, perché il sindaco non aveva provveduto al taglio del suo stipendio, lasciando intravedere un non so che di anarchico rispetto alle indicazioni del codice grillino. Da quel momento in poi la corsa si è rivelata accidentata: dopo essere scampato a due mozioni di sfiducia, e aver tentato di rimediare al caos dando vita a una “giunta di salute pubblica”, Messinese è finito fuori strada per la terza volta. Rimettendoci le penne.

E anche laddove non accade uno scandalo, e si attesti mediamente al 50% dei consensi, succede che il Movimento perda. A Ragusa, ad esempio, secondo comune capoluogo d’Italia ad affidarsi alle cure di un sindaco grillino. Fu nel 2013 l’ingegnere Federico Piccitto. Che qualche mese fa ha scelto di non ricandidarsi, dice lui, per motivi di carattere personale. Ma non può non aver influito sulla decisione l’incredibile audio di un “corvo” che spiegava come l’idea di far fuori Piccitto fosse maturata in uno dei due meetup cittadini e avallata persino da Luigi Di Maio. Al di là del gossip, di dichiarazioni che rischiano di diventare pettegolezzo, resta un dato di fatto: il Movimento ha ceduto lo scettro al ballottaggio – evidentemente il lavoro fatto dalla giunta si è rivelato meno redditizio di quanto annunciato da Antonio Tringali, papabile successore di Piccitto, in campagna elettorale – e il luogotenente dell’ex sindaco, Massimo Iannucci, ha scelto dopo l’estate di perseguire il “cambiamento” passando ai fratelli-rivali della Lega di Salvini, di cui è diventato coordinatore cittadino.

La riflessione odierna è frutto di esempi e non di supposizioni. L’integrità e il moralismo, la passione recondita per l’onestà – tutti concetti bellissimi e approvabilissimi – si scontrano spesso con la realtà dei fatti. In cui, scendendo a compromessi, si cade in contraddizione. Ad esempio a Palermo, qualche mese fa, quattordici persone (fra cui tre parlamentari nazionali, due regionali e qualche attivista) sono state iscritte nel registro degli indagati per la storia delle firme false legate alle Amministrative del 2012. Secondo l’accusa ricopiarono in fretta e furia le firme dei cittadini dopo aver cestinato le precedenti, quelle originali, a causa di un errore formale riferito ai dati anagrafici di un candidato. Andranno a processo (anche se rischia di intervenire l’odiata prescrizione).

Non che alla Regione i risultati siano di levatura. Oltre alla battaglia sui vitalizi – la proposta di Cancelleri e soci è ancora al vaglio del Consiglio di presidenza – i grillini si crogiolano nel vecchio brodo della restituzione dello stipendio (nessuno gliel’ha mai chiesto) e della “trazzera dell’onestà”, la bretella finanziata con 320mila euro per bypassare il viadotto Himera crollato sulla A19. Qui non sono in dubbio le buone intenzioni, anche perché di processi alle intenzioni loro stessi ne hanno costruiti abbastanza. Ma la capacità di calarsi in un contesto vero, reale, dove le urla servono a poco. Dove non serve un partito di lotta, ma di governo. Dove le lezioni raramente s’imparano. E per questo, spesso, ci si scotta.