Una tavola imbandita dopo un periodo di carestia. È l’effetto che fa il cartellone con il quale il Teatro Massimo di Palermo riparte sabato 4 luglio (nel link date, eventi e cast nel dettaglio) dopo quattro mesi di chiusura, dopo la sospensione dell’attività artistica, la cancellazione dei titoli operistici e di balletto della nicchia  primaverile della stagione 2020, la messa a riposo – in cassa integrazione – dell’Orchestra, del Coro, del Corpo di Ballo e delle maestranze, il buio in sala e le luci spente sul prospetto monumentale del Basile. Recuperi di qualche evento già previsto ma soprattutto nuove idee, nuove ipotesi di spettacolo, nuova mappa e nuova logistica per il pubblico e gli artisti (la platea che si svuota delle poltrone e diventa golfo mistico e scena e solo i palchi agibili per il pubblico – solo 200 spettatori su circa 2000 nella sala di piazza Verdi – e 700 soltanto, sempre su 2000, all’aperto, al Teatro di Verdura), regole inedite, dettate dalla guerra sanitaria che abbiamo combattuto e che non abbiamo ancora vinto del tutto. Ma la parola d’ordine è ripartire. La dice, primo fra tutti, il Sovrintendente della Fondazione lirica palermitana.

Francesco Giambrone, sembra una chiamata: tutti a tavola!

«A tavola dovevamo tornare a sederci, se vogliamo usare questa metafora, era necessario, importante. Avessero dovuto   guardare solo ai conti, i teatri lirici sarebbero rimasti chiusi. Ma noi diamo un altro valore al nostro lavoro, al nostro ruolo, alla nostra presenza ed è quello di tenere coesa una comunità. Il menù è comunque diverso, è cambiata l’offerta. Per questo non abbiamo voluto chiamarla stagione ma festival e a ben pensarci non è nemmeno quello perché  un festival ha una data d’inizio – noi partiamo il 4 luglio – e una di fine ma noi quest’ultima data non l’abbiamo, non sappiamo quanto questo tempo durerà, se ad ottobre ci saranno direttive diverse o resteranno quelle attuali».

Per riaprire il Massimo, una nuova opera composta ad hoc – un monodramma per attore e orchestra – che confluisce senza soluzione di continuità nella Messa in do maggiore beethoveniana.

«Anche questo è un segnale. Una commissione internazionale, in collaborazione con Germania e Inghilterra, che prosegue la nostra ricerca sul linguaggio contemporaneo. Il tema è quello dello straniero, dello smarrimento dell’uomo che si sente estraneo in una terra non sua, un argomento che si incanala poi perfettamente nell’alveo di una grande pagina spirituale di musica quale quella di Beethoven. Stessa cosa a settembre per Un sopravvissuto di Varsavia di Schoenberg che sarà abbinato alla Messa dell’Incoronazione di Mozart».

In mezzo l’opera, il balletto, ancora sinfonica. Una seduzione a 360 gradi.

«L’arma più forte di seduzione, in questo tempo sospeso che viviamo, è quella della curiosità. Questa incertezza ci ha destabilizzato ma ci ha fatto diventare più curiosi, abbiamo imparato a vedere ogni cosa sotto una luce diversa. Per questo il titolo del festival è Sotto una nuova luce».

Al di là della ripartenza, qual è la ferita più aperta che una grande fabbrica come il Massimo si lecca?

«Le ferite sono diverse. L’impresa maggiore è riconquistare fiducia. La devono riconquistare gli artisti e le maestranze del teatro in primo luogo. Ho visto orchestrali, coristi, tecnici smarriti. Fare musica, fare la lirica è un lavoro d’insieme, a queste persone è stata scippata proprio questa dimensione, di colpo, brutalmente. E poi riconquistare la fiducia del pubblico cui abbiamo cercato di far compagnia con i nostri spettacoli sulla web tv. Ma il teatro è altra cosa, lo sappiamo bene».

Quanto è rischioso ripartire?

«Dovessimo prendere in considerazione le risorse, la sostenibilità, dovremmo guardarci in faccia e dirci “restiamo a casa”. Ma il Paese è comunque ripartito, arranca ogni giorno tra mille difficoltà ma si è rimesso in moto. Come fai a rimanere fermo? Non sappiamo quello che accadrà ad ottobre ma rimettersi in marcia – seppur con i limiti che la situazione impone – era doveroso. Con tutti i rischi che questo comporta. Non è un caso se l’Opéra a Parigi e il Metropolitan a New York hanno deciso di riaprire a gennaio 2021».

Dopo l’improvvida ma forse sovradimensionata battuta del premier sui «circenses», l’essere stati invitati e ascoltati agli Stati Generali vi ha dato qualche garanzia in più?

«Io devo dire che, battute o meno, la sensazione di un governo che ci ascoltasse l’ho sempre avuta. Lo posso confermare anche come presidente dell’Associazione delle fondazioni lirico-sinfoniche: l’attenzione del ministro c’è sempre stata, ci siamo sentiti mille volte in questi mesi, è stato sensibile ai problemi del settore. Certo, le risposte non sono state sufficienti ma nessuno si è tappato le orecchie».

Che ne sarà della stagione 2020 del Massimo?

«Fino al 30 settembre è cancellata. Poi, come dicevo, da ottobre vedremo. La situazione è fluida».

Gli abbonati?

«I voucher sono quel che finora ci consentono le disposizioni del governo. Stiamo provvedendo a pianificarli».

Con il suo milione e settecentomila lavoratori, ce la farà la cultura a restare la terza voce dell’industria di questo Paese?

«Penso proprio di sì. Ma ad una condizione: che quello che è accaduto faccia riflettere non solo su quanto sia importante questo settore ma soprattutto su quanto in passato vi sia stato investito male, spesso malissimo».

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